Sabato si e’ tenuto a Verona il primo incontro genitori di Bilingue per Gioco, sul tema Il Bilinguismo Comincia A Casa, e’ stato davvero un bell’incontro, sorprendente per certi versi e molto sentito.
Purtroppo diverse famiglie sono state colpite dalla coda dell’ondata influenzale, e cosi’ negli ultimi giorni ci sono stati degli abbandoni. Speriamo si stiano riprendendo tutti! Comunque alla fine ci siamo trovate in 5, il che pero’ ha fatto si che tutte le partecipanti abbiano avuto piu’ spazio e che lo scambio sia stato molto personale.
Il gruppetto, per quanto esiguo, era pero’ molto diversificato. Le lingue rappresentate, a parte l’Italiano, erano Inglese, Francese, Tedesco e Spagnolo. I modelli familiari erano tutti diversi tra loro: mamma cresciuta monolingue in un’altra lingua e poi trasferitasi in Italia dove l’italiano e’ diventato dominante, mamma italiana sposata a papa’ di altra madrelingua, mamma e papa’ italiani che parlano bene una seconda lingua, mamma cresciuta bilingue e con figli bilingui, famiglia monoparentale.
Le eta’ dei figli spaziavano dai 18 mesi ai, attenzione!, 23 anni. Su una sola dimensione pero’ il gruppo era completamente uniforme, eravamo tutte mamme.
Il formato dell’incontro era basato sulla condivisione di tematiche, domande e esperienze, quindi i temi su cui ci siamo soffermate sono emersi dalla discussione, invece di essere stati prestabiliti. Il risultato e’ stato un po’ una sorpresa per tutte. L’aspettativa forse era di trovare risposte a domande “tecniche”, al “come faccio a…” per intendersi, ma non e’ stato cosi’, perche’ la discussione e’ stata molto piu’ a monte. L’incontro si e’ focalizzato tutto sul perche’ del bilinguismo, in particolare cercando di capire in quali circostanze il bilinguismo sia davvero la cosa migliore per il bambino e non invece una forzatura, un chiedere troppo al bambino di oggi per il “bene” dell’adulto di domani (se non dell’ego dei genitori) o un esporlo al rischio di perdere la propria identita’ o essere considerato diverso.
Ne consegue che la discussione e’ stata molto intensa. Non accesa, si badi bene, ma intensa, nel senso che tutte noi ci siamo trovate a dover considerare o riconsiderare delle posizioni che forse davamo gia’ per scontate, a riflettere su temi importantissimi e delicati, per esempio su quali siano le vere necessita’ di ogni bambino e come possiamo soddisfarle come genitori, a valutare attentamente l’impatto delle nostre azioni sui nostri figli.
Tutte noi siamo uscite da questo incontro con piu’ domande di quando siamo arrivate, ma sono domande giuste e fondamentali, che richiedono un approfondimento sia a livello individuale che tramite lo scambio collettivo, ed infatti tutte le mamme sono state molto contente di questa esperienza.
Nello specifico, cio’ di cui abbiamo parlato e’ se il bilinguismo sia opportuno, o una forzatura, nei casi in cui non e’ ovvio, cioe’ nei casi in cui non accade con totale naturalita’ perche’ i genitori parlano lingue diverse (o diversa da quella del paese in cui vivono) e semplicemente parlano la propria lingua ai figli. In tutti i casi in cui un genitore rinuncia, magari anche solo in parte, alla lingua che gli e’ piu’ naturale in favore del bilinguismo, ossia per dare ai propri figli il dono di crescerli bilingui, sta davvero facendo un dono ai propri figli, o sta privando il bambino di una componente essenziale della relazione col genitore in favore di un vantaggio che potra’ trarne da adulto?
Non e’ affatto una domanda banale, e come potete immaginare le opinioni differivano. Cio’ su cui pero’ credo ci siamo trovate tutte d’accordo e’ sul fatto che le esigenze del bambino devono essere assolutamente prioritarie, in nessun modo bisogna tradire il bambino in nome di un vantaggio futuro. Cio’ su cui invece le posizioni differivano era sul come ottenere questo obiettivo. Alcune mamme ritengono che se il bilinguismo viene supportato da una comunicazione, affettivita’ e gestualita’ che restituiscono tutto il significato delle emozioni,il fatto che il parlato perda un po’ di efficacia non e’ necessariamente un problema. Altre riflettevano che se il bilinguismo viene proposto come momento di gioco, divertimento e complicita’, puo’ addirittura arricchire il rapporto invece di impoverirlo.
Su un tema tanto delicato ogni genitore e ogni famiglia devono farsi una propria opinione, considerando tutta una serie di fattori assolutamente personali, come la sensibilita’ di genitori e bambini, le dinamiche della famiglia, le influenze dell’ambiente esterno, la familiarita’ con la lingua, etc etc. L’importante pero’ e’ porsi queste domande e riflettere su questi temi per capire cosa vada bene per la propria famiglia prima di scegliere una metodologia, che dovrebbe invece essere diretta conseguenza di queste riflessioni.
Per fare un esempio pratico, se il parlare la seconda lingua in pubblico e’ fonte di disagio sia per il genitore che per i bambini e suscita forti perplessita’, beh, forse evitarlo puo’ essere la soluzione migliore. Certo diminuisce un po’ l’esposizione alla lingua, ma cio’ e’ in fondo irrilevante se tutti ci guadagnano in serenita’ e la seconda lingua non viene vissuta come un peso.
Insomma, le mamme che hanno partecipato all’incontro sono andate via con molte domande, ma hanno anche capito che il bilinguismo puo’ prendere tante forme e che quindi sta a loro trovare la formula piu’ adatta alla propria famiglia e ai propri bambini, per fare si che il bilinguismo sia davvero un dono e non un’incombenza.
Da parte mia conto di usare il blog per ritornare su alcuni dei temi di cui abbiamo parlato all’incontro, e mi farebbe piacere sentire le opinioni degli altri genitori. E sottolineo genitori, perche’ una delle domande che e’ stata posta, e che qui ripropongo, e’ “Perche’ i papa’ se ne tirano fuori?”
Infine, e’ stata opinione generale che l’incontro sia durato troppo poco e che ci siano ancora molte domande aperte che si vorrebbero discutere, quindi sto valutando l’opportunita’ di organizzare un altro incontro prima dell’estate.
Micaela says
Eccoci qui, finalmente un po’ di tempo per scrivere due righe sull’incontro genitori di sabato.
Devo dire che, come già accennava Letizia, sono rimasta un po’ sorpresa dalla direzione che ha preso, da subito, la conversazione, centrata sul “perchè?” e non sul “come” cercare di crescere il proprio figlio bilingue.
Diciamo che pensavo di aver ormai superato lo step del “perchè lo faccio”…. dopo più di un anno di playgroups!!!
E invece mi ha fatto bene. La conversazione è stata molto sincera e schietta e quindi molto fruttuosa. Così dopo un primo momento di esitazione (“ma… ma..non starò mica forzando mia figlia a fare qualcosa, senza tener conto delle sue esigenze, solo perchè ritengo sia meglio per lei??”) sono passata ad un “ma no, per cercare di evitarlo, devo solo recuperare il significato originale dell’esperienza”.
Eh già, perchè l’idea era partita così: ci si doveva trovare a giocare coi bambini in inglese. Poi però ti ritrovi il venerdì sera al playgroup svuotata da una settimana di lavoro e di corse avanti e indietro, con poche energie e tanta voglia di delegare a qualcuno di più “fresco” la gestione del gioco. Finendo così per essere poco più che tappezzeria o “poltrona” per i tuoi figli.
Sabato mi è servito a questo, a caricarmi nuovamente e a risottolinearmi la doppia valenza del playgroup: non solo occasione di esposizione ad un’altra lingua ma anche momento di gioco e di divertimento CON i miei figli.
Sempre alla ricerca di un po’ di tempo da passare con loro dimenticavo di avere un’ora la settimana che non sfruttavo a dovere…
Eppure è questa l’idea vincente, anche secondo quanto è emerso dalla conversazione di sabato: la complicità.
Se la lingua viene sentita dai bambini come momento di unione (e non divisione) coi genitori finiranno per associarla all’affetto che provano per loro e non la vivranno come un peso.
Ora mi auguro solo che le energie che ho riscoperto non si affievoliscano troppo in fretta nello scontro con la quotidianità….
In attesa del prossimo incontro,
Ciao a tutti,
Micaela
P.S.
Se proprio vogliamo dirla tutta, per me c’è anche una terza valenza nei playgroup: quella di continuare a tener vivo il mio inglese
Nadia says
Sono stata molto contenta dell’incontro con i genitori di sabato 21 marzo. Anch’io mi aspettavo di approfondire principalmente i temi metodologici, i come, quando e quanto esporre i bimbi alla seconda lingua e invece ci siamo accorte che c’era molto di cui parlare e riflettere sui perché (ben sintetizzati nell’articolo di Letizia).
Per me in particolare l’incontro con i genitori ha sollevato due ordini di problemi.
Il primo che parlando una lingua che non è la propria lingua madre la comunicazione diventi più frammentaria, meno immediata e il rapporto meno diretto e più artificioso. Sappiamo che attraverso la lingua madre ci si esprime meglio e in maniera più completa, è la lingua migliore per lo scambio affettivo e dei sentimenti, componenti queste imprescindibili nella comunicazione con i più piccoli.
Il secondo dubbio nasce dal fatto che si scelga di parlare in famiglia una lingua che non fa parte dell’identità principale dei genitori e non si riesca a trasmettere quindi una componente fondamentale delle radici culturali e tradizionali di cui il bambino ha bisogno per crearsi la propria identità.
Il mio caso è abbastanza particolare: io sono italiana di madrelingua dialetto veronese, parlo bene francese e spagnolo e meno bene l’inglese, il papà è senegalese parla bene il francese pur non essendo madrelingua e Gioele ha 18 mesi e da circa 1 mese abbiamo iniziato a parlargli in francese (prima solo in italiano). L’incontro di sabato ha rotto il vaso di pandora sulle motivazioni che ci hanno spinto non tanto alla scelta del bilinguismo, ma piuttosto sulla scelta della seconda lingua.
Riguardo il primo problema, la mia riflessione mi porta a sostenere che la mancanza di immediatezza, di completezza e di partecipazione effettiva che si trasmette con la lingua madre, possano essere compensate da altri elementi, quali il contatto fisico, le coccole, la gesticolazione, l’enfasi data alle parole, il gioco e la complicità che si crea tra bimbi e genitori. Su questo punto quindi mi sento abbastanza tranquilla nel parlare a Gioele una lingua che non conosco alla perfezione.
Faccio invece più fatica a darmi una risposta al secondo problema: quello dell’identità.
Nel nostro caso noi abbiamo escluso a priori i due dialetti (mio e del papà) che invece sono le lingue delle rispettive origini familiari.
Mi sono resa conto che la scelta di parlare a Gioele in francese è stata dettata da un ordine quasi unicamente pratico, ossia dal fatto che è l’unica lingua (a parte l’italiano) che sia io, sia il papà parliamo bene, però non è la lingua madre di nessuno dei due (anche se il francese è una delle due lingue ufficiali in Senegal). Su questo aspetto forse noi come famiglia abbiamo riflettuto poco. Quello che però mi sento di dire è che noi stiamo dando a Gioele uno strumento in più (la seconda lingua) e questo non significa a priori privarlo dell’identità trasmessa dai genitori. Per capirci, io credo di essere me stessa e quindi di trasmettere la mia propria identità e di contribuire alla costruzione dell’identità specifica di Gioele, anche se gli parlo in francese e non in dialetto veronese; e lo stesso vale per il papà.
L’argomento è complesso e mi rendo conto che ci devo riflettere ancora, mi farebbe piacere condividere le opinioni di altri genitori che si sono posti questo problema di lingua e identità.
Un saluto
Nadia
claudia says
Trovo questi commenti davvero interessanti. Vorrei incoraggiare tutte quelle mamme/papà che si sentono un po’ a disagio a parlare la lingua di minoranza (nel mio caso l’inglese) in pubblico, rivolgendosi ai propri figli. Per me è stato così all’inizio, nel senso che ho scelto di parlare esclusivamente inglese ai miei tre bambini in un ambiente che di inglese non ha proprio nulla…e per di più da parlante non nativa…ma determinata a portare avanti questo progetto di vita.
Il disagio, se così lo si può chiamare, è stato soltanto iniziale, poi è bastato pensare questo: ma perchè devo rinunciare a parlare loro in inglese, rischiando pure di confonderli con tutto questo code-switching? C’è la nonna per casa? Arriva l’amica a trovarci? Siamo in panetteria? Va bene, io a loro continuo a rivolgermi in inglese, così come faccio quando siamo soli. Sia chiaro, per me è anche importante l’educazione, è doveroso da parte mia preoccuparmi di non far sentire il terzo interlocutore “escluso” dal discorso, e del resto anche a me è capitato di sussurrare più che di sbandierare frasi ad alta voce, ma nel corso degli anni ho elaborato tutta una serie di strategie diplomatiche per cui ormai in tutti gli ambienti in cui siamo vale sempre la stessa regola: la mamma parla italiano a tutti gli altri e inglese ai suoi tre bambini , e tutto funziona bene. Complicherei ulteriormente le cose a mio figlio Davide, che ora a due anni comincia bene a distinguere le fonti italiane (il papà e tutti gli altri) e le fonti inglesi (io, i programmi TV, l’amica madrelingua etc.) se mi sentisse parlare ai suoi fratelli un po’ in italiano, un po’ in inglese, insomma che minestrone… perchè poi? Per evitare un po’ di imbarazzo, diciamolo pure, generato più che altro dalla ristrettezza mentale del vicino di casa?! Parlare sempre e solo ai bambini in lingua inglese mi ha portato tra l’altro a sentire sempre più mia questa seconda lingua, e loro stessi la interiorizzano così, in modo naturale, sanno che dalla mamma arriva questo e lo accettano tranquillamente, imparano senza accorgersene, e non è forse proprio qui che sta l’essenza della scelta che abbiamo fatto tutti noi? Dare ai nostri figli uno strumento, che poi nella vita decideranno loro se e come usare. E’ un dono che facciamo ai nostri bambini che sì, si basa certo anche sul nostro amore per la lingua straniera, ma non si limita certamente a questo. A presto, Claudia.
L. says
Claudia, il tuoi commenti sono cosi’ interessanti che ne ho fatto un post! E invito tutti i genitori che hanno una storia da raccontare a raccontarla senza remore. Pensateci, voi non leggete con molto interesse le storie raccontate da altre famiglie? Allora perche’ la vostra storia non dovrebbe essere interessante? Non siate timidi, anzi… diciamolo, timide. E’ proprio dalla condivisione di esperienze che impariamo tutti qualcosa.
L.