OPOL (One Parent One Language) e’ una delle tecniche piu’ usate nelle famiglie bilingui. E’ un metodo semplicissimo da spiegare (ogni genitore parla la propria lingua con i figli), ma difficile da implementare. O meglio diciamo che e’ difficile attenersi alla regola scrupolosamente, e quindi ognuno lo implementa a modo suo, decidendo se e quali eccezioni fare.
La situazione che piu’ crea perplessità e’ cosa fare quando si esce, si va al parco, in generale si parla con altre persone.
Facciamo degli esempi: io parlo Inglese con A., e a casa sono molto scrupolosa.
- Esco di casa e incontro la vicina, signora non piu’ giovanissima, che ovviamente si ferma a salutare il bambino e scambiare due parole. Cosa faccio? Dico ad A. “Say hello to Mrs. XXX” “Goodmorning Mrs. XXX” etc. etc. ? Va da se che uno si sente scemo a fare cosi’, perche’ la signora non capisce l’Inglese, e per contro sa benissimo che A. capisce perfettamente l’Italiano.
- Oppure, vado al parco, dico ad A. “Vuoi andare sull’altalena” o “Would you like to go on the swing”? Sapendo che tutte le mamme intorno noteranno che parlo inglese al bambino e sentendomi quindi osservata?
- Sempre al parco, A. sta “interagendo” con un altro bambino. Gli dico “A., restituisci la palla” (rompendo la regola), “A., give the ball back” (occhi sgranati dell’altro bambino) o “A., give the ball back, restituisci la palla” (OPOL salvato, bambino tranquillo, ma comunicazione decisamente ridondante)?
Crescere un bambino bilingue vuol dire prendere decisioni di questo tipo quotidianamente. Eppure queste piccole decisioni, che isolatamente sembrano non avere molta importanza, sommandosi creano uno schema, che sara’ il mio metodo OPOL e che influenzera’ la percezione di A. su quale lingua si parla in quale contesto. Se da un lato tutti i comportamenti su menzionati sono OK, dall’altro non sono equivalenti.
Quindi l’unico consiglio che mi sento di dare in merito e’ di riflettere su queste situazioni, decidere quale comportamento tenere e quindi quale sara’ il proprio metodo e poi attenervisi quanto piu’ scrupolosamente possibile. Per i bambini e’ importante sapere cosa aspettarsi, avere uno schema di riferimento, invece di vedere ogni volta reazioni diverse. Nel decidere come comportarsi pero’ bisogna essere realistici, e tenere in considerazione non solo l’impatto sul bilinguismo (certo, piu’ si parla la lingua minoritaria meglio e’), ma anche le proprie reazioni e quanto ci si sente a disagio in ogni circostanza. Se parlare un’altra lingua in presenza di altri genitori al parco ci fa vergognare molto, non e’ assolutamente obbligatorio farlo.
A questo proposito pero’ devo anche aggiungere che (come commentato all’incontro genitori), magari noi ci sentiamo a disagio perche’ facciamo qualcosa che ci mette in evidenza come “diversi”, ma in realta’ gli altri genitori ci invidiano e invidiano i nostri bambini che sono bilingui, e forse il nostro stesso atteggiamento puo’ influenzare le percezioni degli altri. Insomma, se siamo fiduciosi e orgogliosi del bilinguismo molto probabilmente gli altri ci guarderanno con rispetto, mentre se sembriamo a disagio saremo guardati con sufficienza.
Per quanto mi riguarda le mie scelte (personalissime) sono queste:
- Quando incontro la vicina per ora ci parlo io, in italiano, ed evito di dire nulla ad A. Non mi e’ ancora chiaro cosa faro’ quando A. comincera’ a parlare con la vicina, ci devo pensare
- Al parco parlo in Inglese, come se fossi a casa. In realta’ ho notato che non attiro questo granche’ di attenzione ma comunque mi sembra di essere osservata, insomma e’ piu’ una fisima mia che altro. Se vedo che delle mamme mi guardano sorrido, e magari faccio una piccola battuta o scambio due parole in italiano, faccio capire che parlo un’ altra lingua ma non vengo da un altro pianeta per cosi’ dire. (Pero’ se lo sto portando all’altalena non dico ne’ altalena ne’ swing, dico DIN DON)
- quando A. intergisce, gli dico “Give the ball back” e magari dico all’altro bambino “scusa ora ti restituisce la palla”
Funziona? Mah… ho anch’io le mie perplessita’, e non so bene neanche io come evolvera’ la situazione quando lui comincera’ a parlare… Vedremo… Voi come fate?
In effetti i problemi del OPOL nascono quando l’interazione da diadica (moi maman – toi bébé) inizia a coinvolgere altre persone che non condividono la lingua della diade.
Già nell’interazione a tre maman-babbo-Giovanni ogni tanto si creano delle cose un po’ strane. Per esempio mi trovo a “tradurre” in francese quello che mio marito dice al bambino, a interpretare sulla base del francese i suoni ancora poco articolati di Giovanni mentre mio marito li interpreta in italiano. Per esempio se il bimbo dice ch ch (è il suono più frequente che usa per comunicare!!) mentre un cane dei vicini abbaia io dico “le chien, qu’est-ce qu’il dit le chien?” mentre mio marito dice “il cagnolino, che dice il cagnolino?”. Il risultato è che comunque Giovanni risponde “ua ua ua” soddisfacendo entrambi ma per quanto tempo ancora questa ambiguità e ridondanza sarà accettabile? Non so, vedremo…
Quando siamo al parco o comunque in famiglia allargata dove tutti parlano italiano io continuo comunque a usare il francese con lui e anche con gli altri bambini che in genere lo accettano piuttosto bene se uso abbastanza gesti e azioni e, ovviamente, parlo di cose molto legate al contesto “qui e ora”! Quando devo far parlare Giovanni con degli adulti (per es. saluta la signora, dai la carta di credito alla cassiera e cose del genere), per il momento continuo a usare il francese tanto i suoi interventi sono gestuali (fa ciao con la mano, manda un bacio e così via) ma quando devo farlo rispondere a qualche domanda in italiano prima rispondo io al suo posto e poi rifaccio la scena in francese. Ad esempio, se incontriamo la vicina che chiede “Allora Giovanni come è andata oggi al nido?” io rispondo “Bene ho mangiato un sacco” e poi rivolta a Giovanni dico “ça c’est bien passé à la creche? Oui, j’ai bien mangé” o qualcosa del genere, anche perchè a volte mentre faccio questa ripetizione Giovanni ci mette del suo e fa qualche gesto che corrisponde alle mie parole (ad esempio il gesto con l’indice sulla guancia per dire buono). Anche qui però la ridondanza abbonda e non so se e come funzionerà più avanti…
Per il momento però così funziona, le persone che mi sentono parlare francese con il bambino non mi sembrano stupite più di tanto, se sono in grado dicono anche loro qualcosa in francese e i bambini ripetono quello che mi sentono dire. Quando mi sembrerà che tutto questo non funzioni più tanto bene elaborerò una nuova strategia.
Devo però aggiungere che anche quando siamo solo io e Giovanni ogni tanto uso l’italiano. Ad esempio per formule specifiche che fanno riferimento ad altre sue esperienze: quando ci facciamo le coccole di solito dico sia “un gros calin à ta maman” sia “tante coccole a mamma” frase che lui conosce dai teletubbies che guarda in italiano e dalla canzone dello zecchino d’oro. Oppure quando “cito” modi di dire di persone che conosciamo, principalmente zie, zii o cugini ad esempio “il te dit comment zio Roberto? Il dit pastrocchio!” in modo che riconosca come familiare queste espressioni nel momento in cui interagisce con loro…
Certo con gli anni la situazione sarà ancora più complicata. Mi ricordo di quando facevo le elementari e mia mamma cercava di spiegarmi (ovviamente in francese) qualche regola matematica su cui la maestra mi aveva dato qualche compito (in italiano) e io protestavo “ma la maestra non ha detto così, non è la stessa regola, non è così che si fa”: forse era solo che non riconoscevo i concetti perchè la lingua non era la stessa…
Anche se Alexander (il mio) ancora non parla, la regola é ferrea: quando mi rivolgo A LUI, esclusivamente italiano. Allora, in quei casi la situazione é cosí:
1) “Alexander, dí “hej” alla signora/nonna/zio/maestra, etc. !” Perché “hej” é la parola che lui deve usare, non una parola che io uso per comunicare con lui. Il resto della frase é in italiano perché lí io effettivamente comunico con lui.
2) se sono in presenza d’altri (al parco, coi nonni svedesi, eccetera), io parlo in italiano sempre e comunque, e non mi curo di venire osservata, non é un problema mio se gli altri non capiscono.
3) con l’altro bambino, faccio come te: prima dico ad Alexander, in italiano, di restituire la palla. Poi dico all’altro bimbo, in svedese, che la palla gli verrá restituita.
Io tengo conto anche del fatto che:
– molte volte il body language viene capito cmq dagli svedesi, anche se ho parlato italiano al piccolo
-alcune parole chiave italiane sono capite o intuite all’estero e spesso molti ci guardano, sorridono e annuiscono.
– quando qualcuno non capisce e magari chiede spiegazioni, io le dó. capita spesso coi miei suoceri. cosí socializzo anch’io 🙂
una cosa che ci ha dato soddisfazione, a casa:
ieri il mio moroso dice ad Alex “var är bollen?” (dov’é la palla?) e Alex é andato dalla palla ch era lí vicino.
Stamattina ho chiesto ad Alex di nuovo: “dov’é la palla?”, lui si é girato e l’ha presa.
Se non é solo un caso, vuol dire che lui, sebbene non parli, a 9 1/2 mesi giá capisce lo stesso concetto in due lingue diverse.
siamo contentissimi! chissá che l’esperimento OPOL non stia dando risultati….
ciao
OPOL é decisamente il mio metodo preferito ma non sempre é facile (almeno per me ) seguirlo rigidamente. Come regola generale io parlo italiano a Mia ma non é sempre possibile, e non é solo una questione di sentirsi a disagio o osservati (e chi ti osserva mai a Londra???). Vi faccio qualche esempio, la mattina quando lascio Mia al nido devo per forza parlare con la maestra in inglese e a volte la conversazione include Mia e purtroppo non c’é tempo per la traduzione etc…. (qui si vive con i minuti contati sfortunatamente) ma se lei fa i capricci e non vuole stare allora le parlo in italiano visto che é solo fra me e lei. Poi peró la sera quando vado a prenderla torniamo a casa con il suo mogliore amico e la sua mamma e lí sarebbe troppo difficile parlare a Mia solo in italiano visto che io sto parlando con l’altra mamma in inglese. Ma ci sono delle eccezioni e delle espressioni che mi vengono solo in italiano quindi quelle rimangono in italiano. In piú ci sono delle parole che Mia usa solo in italiano quindi adesso é il suo migliore amico (monolingue inglese) che si adatta e dice “more pane” o “luna up in the sky” ….. i bambini non finiscono mai di stupirci!
C’é invece un altro problema del metodo OPOL su cui riflettevo in questi giorni.
Premessa: il moroso ed io cerchiamo di essere il piú coerenti possibile nell’usare ciascuno solo la propria lingua.
Ma cosa devo fare quando mi trovo ad usare parole che in italiano addirittura non esistono o sono traducibili con lunghi e inesatti giri di parole?
Esempio pratico: qui in Svezia si mangiano diversi tipi di bacche. Come lo hjortron (in inglese: cloudberry, una mora gialla). Lo hjortron é diffusissimo, si raccoglie, se ne compra la marmellata, etc: fa parte della vita quotidiana. Che io sappia non esiste il nome corrispondente in italiano.
Lo stesso vale per altre piante o animali che sono comuni qua ma che non hanno il nome italiano.
Che fare? La mia soluzione é stata usare il nome svedese anche quando parlo in italiano, dopotutto anche in Italia si usano parole prese a prestito da altre lingue (computer, garage, etc).
Voi come vi regolate?
Ciao!
Le parole italiane (specie quelle gastronomiche, visto che la nostra cucina é molto apprezzata qui), vanno incontro a due destini diversi:
1- usate tali e quali (pasta, risotto, lasagne, pizza)
2-storpiate in qualche modo fantasioso (foccacia, capucchino, linguini, pasta quattro formaggio, grana padana-quest’ultima senza ironia!-).Oppure scritte correttamente ma pronunciate in modo incomprensibile.
È stato interessante notare che certe cose vengono presentate col loro nome corretto, ma poi lo svedese medio non sa di che si tratta, come quando al bar puó ordinare un “latte” o un latte macchiato(macciato), senza capire che é, appunto latte (con un po’ di caffé).
mafia é diventata maffia.
Sullo hjortron, mi sono accorta a posteriori da wikipedia, che ha il nome italiano camemoro o lampone artico, ma siccome credo che solo i botanici lo usino, continuo a considerarla una parola senza reale corrispettivo nella nostra lingua: se parlando con mio padre dicessi hjortron o camemoro, credo che non farebbe differenza per lui.
ciao, ho trovato molto interessante la vostra discussione. ho un bimbo di 5 anni che parla sia tedesco che italiano. trovo molto giusto l’osservazizone che avete fatto: se ci facciamo problemi noi le cose si complicano ma se siamo tranquille e coscienti, di quello che stiamo facendo, tutto fila abbastanza liscio.
vi saluto da modena
sy
Io abito negli Stati Uniti ormai da un anno e ho un bambino di 11 mesi, il padre è americano e desidero che cresca bilingue.
Non so se adotteremo anche noi il metodo OPOL (anche se io lo spero perché lo trovo valido).
Io sicuramente parlerò con mio figlio esclusivamente in italiano.
E per il momento, mio marito, che conosce bene la nostra lingua, sente di voler parlare anche lui solo quest’ultima con il piccolo perché dice di sentirsi più a suo agio (strano ma vero!)
Certo la nostra situazione è diversa da un genitore italiano che abita in Italia e che vorrebbe il figlio bilingue perchè ci troviamo all’estero (e la scuola sul discorso della prima lingua, che ovviamente in futuro sarà l’inglese, ci dará una grossa mano oltre a parenti ed amici).
Inoltre nulla vieta che le cose possano cambiare e che mio marito ben presto inizierá a parlare esclusivamente in inglese con lui.
Sta di fatto però che per ora lui, nonostante il lieve accento americano, parla in italiano con il piccolo senza farsi problemi e senza guardarsi intorno per vedere cosa pensano o come lo guardano altre persone sia italiane (conoscenti o no incontrati durante le ripetute visite in Italia) sia americane!
Infatti leggendo questo blog non ho capito sinceramente perché ad esempio una madre dovrebbe preoccuparsi “degli occhi sgranati di un bimbo estraneo al parco” che si trova ad ascoltare una conversazione non sua tra lei e suo figlio; perché un genitore inoltre dovrebbe crearsi problemi se altre mamme lo osservano mentre si rivolge al figlio in un’altra lingua e perchè ad un certo punto dovrebbe sentire addirittura la necessitá di sorridere e gettare una battuta “riparatoria” vista la situazione?
Qui in USA nessuno ti guarda come un alieno se parli un’altra lingua…la maggior parte delle persone non ci fa caso forse oerché ha altro nella testa, altre invece possono fermarsi ad ascoltare e poi chiederti amichevolmente con un bel sorriso: “che lingua parli e di dove siete?”.
Ad esempio questa domanda é capitata spesso a mio marito e lui orgoglioso ha risposto:”io sono americano ma a me piace parlare al bambino in italiano”….dimostrando di conoscere un’altra lingua (e ditemi se é una cosa di cui vergognarsi!)
Quindi che male ci sarebbe se una mamma italiana dicesse: “si é vero mio figlio é italiano ma desidero che impari l’inglese e fortunatamente io glielo posso insegnare!”
In Italia (dove ho vissuto fino ad un anno fa) in linea di massima non dovrebbero crearsi circostanze così “imbarazzanti” al parco o altrove, ma credo piuttosto che siamo noi italiani a farci tanti, troppi problemi e di conseguenza ci “mutiliamo nelle situazioni” prima di crearle davvero!
Questo é un nostro limite, credo culturale, che dobbiamo in qualche modo vincere e superare.
Quindi sono dell’idea che prima di iniziare un qualsiasi percorso, metodo educativo, ecc bisognerebbe scrollarsi di dosso innanzitutto quel modo nostro “tutto italiano” di percepire e vivere la vita sociale.
Se vogliamo dare ai nostri figli davvero la possibilitá di spaziare i loro orizzonti, di arricchire le loro menti e dare loro in qualche modo queste “ali per volare” dobbiamo prima di tutto liberarci NOI da tutti questi pregiudizi, paure ingiustificate e secondo me inutili.
E se qualche mamma dovesse fissarti e origliarti al parco o al ristorante mentre parli con tuo figlio in un’altra lingua, beh che dire, pazienza!
Magari avrá finalmente l’occasione di imparare qualche parola in inglese nella sua vita!!
Sono perfettamente d’accordo con il tuo ragionamento! Ormai anche nei centri più piccoli (come quello in cui vivo io) si parlano comunque più lingue, europee o extra europee per cui la gente non ci bada più molto. E se non siamo noi genitori i primi a scrollarci di dosso i legacci del conformismo come faremo ad insegnarlo ai nostri figli???
Sarei curiosa di sapere a distanza di 4 anni da questo post Letizia come si comporta ora nella stessa situazione!
Personalmente di base continuo a usare l’OPOL anche in presenza di estranei avendo magari poi l’accortezza di ripetere anche in italiano quello che ho appena detto a mio figlio (ma non sempre). Capita però qualche volta che infranga questa regola e che usi direttamente l’italiano..
un saluto
Barbara