Il nostro post sull’Inglese come terza lingua ha creato delle perplessita’ in Nadia, la Dott.a Sabine Pirchio*, Ricercatrice in Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell’Educazione, risponde alle sue domande
Nadia scrive:
Ciao Letizia,
trovo questo articolo molto interessante, credo che tutti i genitori che crescono i propri figli con più di una lingua non inglese si chiedano come fare con l’inglese. Mi dico: va bene lasciamo perdere il trilinguismo e lasciamo pure perdere il trilinguismo passivo, ma se l’obiettivo fosse semplicemente una familiarizzazione con i suoni della lingua inglese?
Con Gioele (ha 20 mesi e in casa parliamo il francese) ad esempio facciamo degli sketch del tipo “give me five” e lui risponde “ooai” oppure “one two” … “ti” e lui si diverte un mondo. Io ogni tanto la sera guardo i cartoni animati in inglese di Rai educational (in realtà solo per pochi minuti) e li guarda anche Gioele, certo lo so benissimo che con questo non impara l’inglese, però secondo me è già tanto se associa anche la lingua inglese a qualcosa di divertente e che facciamo insieme e perché no, magari può familiarizzare anche con i suoni di questa lingua.
Ciao e grazie
Nadia
La Dott.a Sabine Pirchio risponde:
E’ opportuno inserire nella vita del bambino bilingue l’inglese come terza lingua?
L’introduzione di una nuova lingua nella vita di un bambino è sempre un evento molto delicato. Il fatto che quella lingua venga effettivamente appresa dal bambino dipende da una serie di circostanze legate tra l’altro a
- la frequenza d’esposizione,
- gli interocutori disponibili in quella lingua,
- le modalità con cui quella lingua viene proposta,
- la motivazione
- la sistematicità e costanza con cui la si propone.
Sappiamo bene infatti che anche se può sembrare la cosa più naturale e spontanea del mondo imparare una lingua richiede sforzo e impegno di ingenti risorse mentali. Sia gli adulti sia i bambini fanno questo sforzo solo se effettivamente è utile e necessario per la loro vita. Quello che interessa ai bambini è entrare in relazione, comunicare e fare cose interessanti e piacevoli con le persone per loro significative. Se per raggiungere questo obiettivo serve conoscere l’inglese allora lo apprenderanno, altrimenti no.
La patata bollente resta quindi nelle mani dei genitori: sta a loro prendere una decisione e poi adottare comportamenti coerenti con quella decisione.
Come psicologa sono perfettamente d’accordo con tutti i punti toccati da Letizia nel suo post: l’inglese può aspettare! Ovviamente come ogni regola, anche questa affermazione piuttosto categorica può avere le sue eccezioni e cautele. Provo a discuterne un paio:
- il bambino può essere iscritto ad un nido in cui si fanno attività in lingua inglese. Ormai questa esperienza è abbastanza diffusa, soprattutto in nidi privati ma anche in molti nidi pubblici. Nell’ottica di creare una forte collaborazione tra nido e famiglie e congruenza tra le esperienze che i bambini fanno nei due contesti, può essere opportuno che i genitori rinforzino in qualche modo l’inglese di cui i bambini hanno esperienza al nido. Questo ovviamente non significa trasformarsi in insegnanti serali di inglese oppure trasformare la propria famiglia da bilingue a trilingue, ma semplicemente dare valore a ciò che il bambino fa al nido con le educatrici.
- L’inglese fa ormai parte della nostra vita e in alcuni casi può essere artificioso (e inutile) tentare di tenerlo fuori. Le T-shirt stanno sostituendo le magliette, diciamo computer senza accorgerci che è una parola non italiana; insomma le nostre vite sono “farcite” di termini inglesi. Considerato questo, propongo di adottare con l’inglese la stessa prospettiva che si adotta normalmente con la lingua scritta: anche se non pretendiamo di insegnare a leggere e a scrivere ad un bambino di 18 mesi, tutti scrivono a quest’età la loro prima lettera a Babbo Natale, “leggono” libri di storie, manifesti pubblicitari e insegne dei negozi. E’ un modo di partecipare alla vita culturale e sociale della nostra comunità.
Ciò che è importante è commisurare aspettative e impegno: inserire l’inglese con l’aspettativa che il bambino lo sappia parlare in contesti comunicativi significa preventivare un importante impegno dei genitori nel proporre la lingua in modo adeguato e per un’adeguata quantità di tempo e richiedere un notevole sforzo al bambino, accettando anche la possibilità di vedere frustrate le proprie aspettative se poi nel corso del tempo le cose non accadono come si vorrebbe.
D’altra parte, fare il gioco del “gimme five”, contare “one, two, three” o cantare “jingle bells”, come fa Nadia o guardare cartoni o altre trasmissioni in inglese non è assolutamente nocivo alla salute psicologica del bambino e anzi è positivo se un modo di interagire piacevolmente e affattuosamente con il bambino ma non si può veramente parlare di apprendimento linguistico, e a mio parere nemmeno di sensibilizzazione, a meno che queste esperienze siano frequenti, ripetute e varie. Inoltre, se l’ottica con cui come genitori proponiamo queste attività è di dare al bambino una prima esperienza positiva con l’inglese in vista del suo apprendimento scolastico dobbiamo considerare due cose: il bambino non ha generalmente pregiudizi negativi circa le esperienze che gli vengono proposte a scuola se il clima della classe è positivo e se la relazione con l’insegnante e con i compagni è buona, quindi l’associazione tra inglese e piacevolezza può tranquillamente aspettare, e andrà cercata attivamente in occasione del primo incontro sistematico con la lingua, mirato al suo apprendimento; nel caso in cui l’esperienza scolastica d’apprendimento dell’inglese non sia piacevole per il bambino, la positività della prima esperienza vissuta in famiglia sarà rapidamente sorpassata dalla delusione e dalla mancanza di motivazione.
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*Sabine Pirchio è Ricercatrice in Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell’Educazione presso la Facoltà di Psicologia 1 dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. I suoi attuali interessi di ricerca fanno riferimento allo studio dell’acquisizione e dell’uso del linguaggio e in particolare all’insegnamento/apprendimento di una lingua straniera in età precoce; alla relazione tra gesti e parole nello sviluppo tipico, atipico e bilingue; alla relazione tra le abilità di teoria della mente, il bilinguismo e la flessibilità cognitiva, all’integrazione scolastica di alunni immigrati nella scuola primaria. Sabine e’ bilingue Italiano-Francese e sta crescendo Giovanni, 20 mesi, bilingue.
Sofia Vasta says
Prima di tutto, scusate per il mio italiano che non è molto buono, sono di lingua spagnola, ma vivo in Italia da sei anni.
Volevo solo dire che ho trovato molto utile questo articolo, spiego il perchè.
Io da bambina fino a 17 anni ho studiato in una scuola bilingue, 2 ore di corso di inglese tutti giorni (dal lunedi al venerdi) ma non lo ho imparato mai bene, ma quasi tutti i miei compagni l’hanno imparato benissimo.
Allora, perchè io non ho potuto impararlo bene?
Ricordo che a casa mia, mio padre sapeva benissimo l’inglese, ma non mi parlava mai in questa lingua. Allora mia madre sempre insisteva in maniera costante a mio padre che doveva insegnarmelo…. ma solo ricordo poche volte che lui sia messo insieme a me, e la verità non lo capivo, perchè la parte grammaticale che mi insegnavano nella scuola era diversa di quello di mio padre, voglio dire, era un’altro metodo di studio, allora io mi arrabiavo e non capivo più nulla.
Tengo questi ricordi, che ho sofferto molto con l’nglese, tanti volte bocciata in queste corso, i miei altri compagni andavano bene, lo stress che c’era in casa perchè mia madre rimproverava a mio padre per non insegnarmelo, tante colpe in giro…
Alla fine, tanti anni con l’nglese, e anche dopo la scuola ho provato a studiarlo, ma non è andato bene, ora che ho 38 anni non ricordo molto, e sono malissima col inglese, anche se capisco qualcosa.
Spero serva la mia testimonianza.
Grazie Letizia per questo bel blog che ho trovato per caso.
Sicuramente vi seguirò anche perchè ho una bimba di 18 mesi (il padre è italiano) che spero sarà bilingue ma non per imposizione (alla forza) senno’ per gioco come dici tu, di maniera naturale.
Alla prossima.
Sofia Vasta
Anna says
Gentile Dott.a Sabine Pirchio,
ho scoprto qst blog per caso, navigando alla ricerca di una “ragazza alla pari” e ho trovato il suo articolo proprio centrato sulle mie perplessità: mi spiego meglio.
Noi siamo una famiglia di lingua italiana che vive in alto adige (intorno al bilinguismo “italiano-tedesco” ruota tutta la provincia di Bolzano!). Per noi, quindi, è stato sin da subito fondamentale proporre il tedesco ai nostri figli e abbiamo agito in qst modo: tages mutter alla mattina (è una sorta di micro nido- una maestra tedesca che tiene a casa sua massimo 5 bimbi) e 2/3 ore di baby sitter tedesca al pomeriggio. Al momento l’esperienza è stata più che positiva, infatti il grande (3 anni) parla correntemente l’italiano (frasi articolate, tempi dei verbi ecc) e con la tages mutter e la baby sitter parla tedesco (ha iniziato da un paio di mesi a fare delle frasi di 3 o 4 parole e quando non sa la parola in tedesco rimpiazza con l’italiano).
Ora il problema è l’inglese. Dato che a settembre inizierà l’asilo (tedesco chiaramente) avevamo pensato di introdurre in gennaio una ragazza alla pari che passasse con i bambini tutti i pomeriggi…
Volevo un suo parere in merito.
grazie in anticipo per la disponibilità.
Anna
L. says
Anna,
la Dott. Pirchio non risponde direttamente sul blog, quindi non posso dirti cose ti risponderebbe lei.
Da parte mia invece ti chiederei delle cose: L’asilo e’ 100% tedesco? Le insegnanti parlano solo tedesco a scuola? Quanti dei bambini iscritti sono di madrelingua tedesca? Te lo chiedo perche’ non e’ da darsi per scontato che il bambino parli tedesco a scuola, se cosi’ non fosse forse sarebbe meglio continuare ad offrire supporto alla lingua tedesca anche a casa. Se invece l’asilo e’ veramente tedesco e sei sicura che il bambino vi parlera’ solo tedesco, e sei anche sicura che abbia sufficiente esposizione all’italiano (cioe’ passa abbastanza tempo con i genitori, parenti e amici italiani) beh, allora perche’ no alla ragazza alla pari che parla inglese?
L.
Anna says
…hai ragione! avevo trovato l’articolo molto interessante e ho scritto il post senza “dare un’occhiata al blog”… nel frattempo ho letto un pò di tutto (e ho capito meglio come funziona) e lo trovo sempre più interessante!
Comunque, tornando alla mia richesta: l’asilo è al 100% tedesco nel senso che le insegnati sono tutte di lingua tedesca e nel quartiere dove abitiamo noi direi che un buon 70% sono tedeschi e qst percentuale rispecchia anche i bambini all’asilo. E’ altrettanto vero che l’italiano è molto più facile perciò tra un bambino tedesco che parla con un bambino italiano (per la mia esperieza) prevale la lingua italiana. Le maestre questo lo sanno e cercano sempre di gestire i gruppi di gioco in modo eterogeneo (non tutti i bambini italiani nello stesso gruppo).
Comunque io volevo aspettare a gennaio per la ragazza au pair proprio per verificare l’andamento dei progressi nella lingua tedesca. In questi ultimi mesi, infatti, ha fatto davvero dei passi da gigante!
Per quanto riguarda la lingua italiana l’esposizione è anche troppa!! io al momento (e sicuramente per i prossimi 2 anni) sarò a casa con i bambini (il piccolo ha 1 anno e 1/2 e – data l’esperienza per me positiva- sta facendo lo stesso percorso del grande) e la maggior parte dei nostri amici parla italiano.
Ma …mi stavo chiedendo… 3,5 anni è troppo tardi per introdurre una nuova lingua? di solito a quest’età si trovano ostacoli?
grazie mille! e continuerò a seguirvi!!
Anna
L. says
Anna,
il tuo approccio mi sembra molto saggio, e il tuo bambino molto fortunato. Facci sapere come va per favore.
A presto,
Letizia