L’autore di questo post e’ Elisabetta, la nostra prima guest blogger!
Ho due figlie (Vittoria, di 7 anni e mezzo e Caterina, di 5 anni e mezzo) che vanno ad una scuola bilingue italiano – inglese. La scelta della scuola, a cui siamo approdati quando la grande faceva già l’ultimo anno di scuola dell’infanzia (e quindi aveva 5 anni) non è stata dettata dalle mode ma neanche (o, almeno, non solo) dal ruolo di ‘esperanto’ che sta acquisendo l’inglese nel mondo occidentale ma dal mio amore per questa lingua in particolare.
Questo amore nasce dalla mia esperienza personale di bilinguismo consecutivo (e quasi tardivo) dovuto ai frequenti trasferimenti tra Roma e Palo Alto-Stanford (California) che ho avuto la fortuna di fare con i miei genitori, sia da bambina, sia da adolescente.
Diciamo subito, quindi, che per me il bilinguismo fu una questione non di scelta ma di sopravvivenza; ora rimane una delle parti più importanti del mio essere me stessa.
Sintetizzare tutto quanto non è semplice, ma ci provo.
Fui portata per la prima volta negli USA all’età di sei mesi e vi rimasi fino a circa 1 anno di età. All’epoca penso di essere stata più o meno a casa con uno dei miei genitori (probabilmente più con mia madre, e forse i miei si alternavano nello studio e nella ricerca visto che sono entrambe degli ‘academics’). Avrò avuto contatti con la lingua nei parchi o al supermercato e cose del genere. Ovviamente non ho nessuno ricordo di allora, ma conservo qualche foto che mi fu scattata lì.
Di nuovo fui portata a Stanford a 5 anni di età, e feci lì sei mesi di asilo. Il mio rifiuto per la nuova lingua era all’epoca totale e ricordo che capivo ma parlavo a me stessa in italiano girando in tondo nel giardino della scuola, come per conservare quella che allora era la mia identità di italiana (sono comunque ricordi molto confusi..).
I miei genitori si ritrasferirono negli Stati Uniti con me (e con il fratello che nel frattempo era nato) altre due volte: una volta avevo 11 anni e mezzo, l’ultima volta avevo 16 anni. Il soggiorno durò ciascuna volta circa 5 mesi, da agosto a dicembre, per non farmi perdere l’anno di scuola in Italia (non ero un exchange student, quindi, per la scuola italiana, risultavo solo assente).
Il mio ‘salto linguistico’ avvenne ad 11 anni e mezzo. Ma procediamo con calma.
Malgrado i miei soggiorni precedenti, una volta inserita nella scuola media americana non capivo nulla (venivo dalla prima media italiana, il mio inglese era scolastico e perdipiù avevo appena preso ‘gravemente insufficiente’ proprio in quella materia!).
Mi inserirono, per le prime due ore della mattina, in una classe di ESL (English as a second language) in mezzo ad un gruppo di immigrati perlopiù asiatici (c’era anche qualche messicano). Le classi separate somigliano alle tristi proposte che fa ora la Lega.. Però la California di quegli anni, che era e forse rimane lo Stato d’America con il più alto tasso di immigrazione, giustificava le classi per immigrati: molti asiatici oltre ad ovviamente non sapere una parola di inglese non conoscevano (parliamo del 1981) neanche l’alfabeto!
Quegli stessi studenti asiatici che studiavano con me a Palo Alto-Stanford (e a Sacramento e a Cupertino e zone limitrofe) sono probabilmente quelli che hanno creato la e-economy nella famosa Silicon Valley, quindici anni dopo. E ora probabilmente con la crisi hanno perso il lavoro.
Ma torniamo al passato.
Nelle classi di ESL venivano iscritti tutti i ragazzi appena arrivati dall’estero. Quelli che erano arrivati negli USA da piccoli (dalla nascita e fino a 10 anni) erano ormai perfettamente bilingui e quindi seguivano classi normali, composte dalla straordinariamente varia compagine degli studenti californiani (americani bianchi, neri e latinos, figli di professori universitari o figli di cassiere dei supermercati, tutti insieme nelle allora bellissime scuole PUBBLICHE californiane, con parchi, piscine, teatri e sale da musica piene di strumenti).
Dopo la classe di ESL, passavo il resto della giornata scolastica andando nelle normali aule per le mie altre lezioni: math, science, social studies. P.E. e così via, girando per la scuola armata di mappa (sic!), programma orario e chiavi del locker, il tipico armadietto delle scuole americane dove si ripongono e si riprendono libri e quaderni, passando da una classe all’altra.
Ma l’ESL durò poco.
In capo ad un mese passai dal non capire nulla al sognare in inglese.
Come ho fatto non so, ma so bene che lo devo a quel particolare concetto di plasticità del cervello cui si riferiscono spesso i neuroscienziati e che forse può essere ravvisato in una corteccia prefrontale immatura e in connessioni di sinapsi ancora tutte da stabilire.
Dal mio punto di vista so solo che il mio desiderio di integrarmi era enorme.
Grasso o magro, nero o bianco, alto o basso, con qualsiasi nome o cognome anche impronunciabile era americano chi PARLAVA americano. Punto. (Quanto c’è da imparare da questo, in termini di politica dell’immigrazione, ve lo lascio solo immaginare, mentre da noi si parla di ripristinare l’apprendimento ‘formale’ dei dialetti…).
Insomma, detto altrimenti un giorno mi sono svegliata ed ho smesso di cercare parole sul vocabolario e di tradurre frasi nella mia testa: mi uscivano fuori già in inglese.
Ebbi quindi un upgrade ad una normale classe di inglese in cui, forse perché più consapevole dello strumento linguistico, ero più brava di molti fellow students americani.
Da allora è passato molto tempo, sono stata ancora a Palo Alto a sedici anni, facendo un pezzo di high school e spesso in vacanza negli USA, in Canada e in Inghilterra, tanto che poi ho conseguito il Certificate of Proficiency dell’Università di Cambridge. Dopo la laurea (italiana) ho fatto un master ad Oxford ed ho vissuto e lavorato a Londra per sei mesi nel 1996; tutt’ora molte delle mie letture si di narrativa che di saggistica sono in inglese.
Nel tempo il mio accento – un tempo nettamente californiano – è diventato flessibile e, anche se il mio imprinting è americano, come Zelig tendo a conformarmi all’accento della persona con cui parlo e modifico anche il vocabolario via via, scegliendo, quando parlo con un briton di dire lift piuttosto che elevator, o underground piuttosto che subway.
Da allora ho anche studiato il francese, che conosco discretamente, e un po’ di spagnolo, ma quella familiarità, no, quella non l’ho più avuta con nessuna altra lingua.
E si, malgrado la mia lingua–madre sia ovviamente l’italiano, la mia lingua d’elezione, la mia lingua del cuore, resta l’inglese. La mia voce interna sovente mi parla in inglese.
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