Questa lettera di StranaMamma mi e’ arrivata un po’ di tempo fa e mi scuso se la pubblico solo oggi, riunisce tanti temi affrontati di recente e ne introduce uno nuovo…
Ciao,
come ho scritto in un commento qui, ho scoperto da poco il tuo sito che trovo pieno di spunti interessanti per chi, come me, ha iniziato ad introdurre attività ludiche in inglese col proprio bimbo. Perciò vorrei condividere la mia esperienza.
Personalmente ho sempre avuto un buon rapporto con le lingue straniere, studiate più per passione che per dovere dentro, ma soprattutto fuori la scuola attraverso corsi privati ed esperienze all’estero. Posso dire di parlarne bene due (inglese e francese), mentre me la cavicchio con lo spagnolo.
Credo molto nell’apprendimento precoce delle lingue e quando sono rimasta incinta mi sono riproposta di dare a mio figlio la possibilità di fare “qualcosa” in lingua straniera il prima possibile.
Tuttavia l’idea di parlargli esclusivamente o quasi in lingua straniera mi pareva un po’ forzata, in più le mie amiche psicologa e antropologa continuavano a ribadirmi il concetto della lingua degli affetti (l’unica in cui siamo in grado di esprimerci al meglio in tutte le sfumature anche dal punto di vista affettivo e che, normalmente, corrisponde alla nostra madrelingua) con la quale è auspicabile parlare alla propria prole per tramandare ciò che altrimenti sarebbe più difficile a livello emozionale.
Alla luce di varie considerazioni e completamente ignara del fatto che esistessero metodi, studi, ecc… ho deciso che avrei cercato un approccio ludico senza sapere bene quale. Il destino ha voluto che le trasmissioni di Rai Educational mi siano venute incontro perché i programmi per bambini in lingua inglese stimolavano l’interesse del mio Tato di 2 anni più di quelli in italiano (anche se a dire il vero quelli in italiano non li guarda perché limitiamo molto l’uso della TV, eccezion fatta per quelle in inglese che ha un’utilità intrinseca).
Di qui abbiamo iniziato con le canzoncine,la mimica, i colori, gli elementi naturali (sole, luna ecc…), stiamo proseguendo con gli animali. Lui è curiosissimo e si diverte anche quando mi passa le pinze per stendere a dirmi i loro colori in inglese oppure me li chiede. La cosa buffa è che lo fa anche al nido: dice che vuole la pallina green senza rendersi conto di usare una lingua diversa esattamente come mi dicono che facciano i bimbi bilingui “veri” dove per veri intendo quelli che hanno genitori di due diverse madrelingue.
Il mio obiettivo non è quello di crescerlo bilingue in senso stretto, perché nel nostro caso mi pare troppo impegnativo e anche un po’ forzato, mi basta aprirgli la strada e fargli capire che non esiste un’unica possibilità di esprimersi per comunicare, ma ci sono persone, paesi, culture e tradizioni diverse al di là dei nostri confini; esiste l’Unione Europea e ne facciamo parte, ma per essere davvero europei è necessario condividere un codice che ci consenta di comunicare con gli altri cittadini.
Insomma, io ho la fortuna di aver fatto una splendida esperienza Erasmus in Belgio che mi ha lasciato una serie di amicizie splendide in giro per l’Europa, vorrei che mio figlio potesse condividere ciò.
L’estate scorsa, neanche duenne, l’abbiamo portato ad un matrimonio in Austria dove si sposava una mia amica e dove ci ritrovavamo con gli altri amici europei ed è stato interessante osservare le sue reazioni in un contesto in cui tutti parlavano lingue diverse….perfino i suoi genitori! All’inizio osservava tutti con circospezione, poi (e in questo i bambini sono fantastici perché non hanno barriere mentali) si è subito adattato e giocava tranquillamente con i bimbi austriaci tentando di ripetere le loro parole.
Purtroppo noto che esistono ancora troppi pregiudizi sul bilinguismo o sull’apprendimento precoce di una seconda lingua, soprattutto a Torino dove io vivo.
Eppure a me pare banale: io ho imparato il dialetto piemontese, interiorizzando la capacità di pronunciare alcuni suoni propri anche della lingua francese, semplicemente ascoltando i nonni che lo parlavano tra loro. Ad un certo punto ho avuto coscienza di saperlo parlare. Non so come abbia fatto, ma non mi è costato nessuno sforzo.
Scoprire il tuo sito e constatare che esistono altre persone che promuovono il bilinguismo anche non madrelingua è stata una boccata d’ossigeno: vuol dire che non sono tutte idee strampalate, ma che si può fare.
Quello su cui devo lavorare sono, come dici giustamente tu, le motivazioni, perché con gli amici stranieri purtroppo non ci si vede così spesso per ovvie ragioni. Avresti qualche suggerimento in proposito?
Mi piacerebbe anche sapere cosa ne pensi della “teoria” sulla lingua degli affetti.
Ti sono grata se vorrai pubblicarmi e/o rispondermi.
Ciao Stranamamma,
e grazie mille per la tua lettera e scusa se rispondo solo ora. Vedo che utilizzi tanti strumenti con consapevolezza, a nche un po´di astuzia (penso alla televisione che si guarda solo in Inglese, se proprio tocca che almeno aiuti a creare un´associazione alla seconda lingua!).
Ti rispondo sul tema della lingua degli affetti. E´un problema che io stessa mi sono posta, e sul quale ho interpellato anche degli esperti, ne abbiamo parlato anche qui con l’Esperta con la quale mi trovo molto d’accordo.
In soldoni io credo che una persona non dovrebbe mai rinunciare a parlare la propria madrelingua con i figli se non quando ne sente una forte volonta’ e desiderio. Se questa scelta viene fatta per scopi pragmatici, o peggio condizionamenti sociali, il rischio che ci siano ripercussioni sulla relazione credo sia effettivo. Se invece c’e’ una forte spinta interiore e consapevolezza di tutti i livelli comunicativi, se non ci sono conflitti interiori dietro questa scelta, allora non credo che esista il rischio di danneggiare la comunicazione.
Spero di averti risposto. Quanto ai consigli che mi chiedi sulla motivazione so che hai letto In che lingua giochiamo? e spero te ne abbia dati un po’…
Letizia
elisabetta says
Certo, Letizia, confermo la tua tesi e cito le tue parole: “In soldoni io credo che una persona non dovrebbe mai rinunciare a parlare la propria madrelingua con i figli se non quando ne sente una forte volonta’ e desiderio”.
E’ stato proprio cosi’ nel mio caso. Ho sentito una forte volonta’ e desiderio di parlare ai miei figli in L2 e sono convinta di aver fatto la cosa giusta per i motivi che ora ti spiego:
quando ho avuto il mio primo figlio nel 2005, ero appena tornata in Italia dopo aver passato 6 anni nel Regno Unito. La mia decisione di parlargli in inglese fin da subito (nonostante io fossi italiana e suo padre scozzese) e’stata una naturale conseguenza del fatto che era la lingua che gia’ si parlava in famiglia (tra me e suo padre). Parlare con il mio cucciolo nella mia seconda lingua non mi creava nessun blocco comunicativo: sono sempre stata sponanea e decisamente a mio agio; per dirla con parole della Dott.ssa Pirchio, era decisamente la mia “lingua del cuore”. Due anni fa e’ nato il fratello, ed io ho sempre continuato a parlare ad entrambi in inglese e tuttora lo faccio: in famiglia, a casa e fuori casa, si parla, si gioca e si litiga anche in inglese: il nostro e’ un OPOL “esteso”: two-parents-one-language.
Premesso cio’ (e per farla breve), devo pero’ anche ammettere che a distanza di 5 anni dalla mia rimpatriata, devo accettare questi seguenti cambiamenti nella mia vita:
1. da parte mia, la perdita di spontaneita’ e scioltezza nel parlare inglese, dato che lo parlo soprattutto a casa (con un marito che ovviamente vedo solo la sera e con cui si parla sempre delle solite cose…)e a scuola (insegno alle superiori). Poche frequentazioni con persone madrelingua e poche chiacchierate al telefono con la suocera(!!).
2. i figli crescono e, come dice sempre Sabine Pirchio, con loro aumenta la complessita’ della comunicazione linguistica: in definitiva, sento che il mio lessico comincia a scantinare, e talvolta mi rendo conto di non riuscire piu’ a gestire in modo spontaneo e sereno le conversazioni – sempre piu’ complesse e ricche di contenuti – con mio figlio piu’ grande (con il piccolo vado ancora a gonfie vele……) e ammetto che, in taluni contesti, la nostra conversazione sia un po’ “povera”.
3. partendo dal fatto che mi rendo conto di non aver la padronanza della lingua tipica del madrelingua nei confronti di mio figlio, sono proprio sicura di fare il suo bene se continuo a parlargli in inglese sempre, in ogni situazione, rischiando di esporlo ad un modello linguistico appunto “povero”
e talvolta “non corretto”? Certo, la Dott.ssa Pirchio parla di necessita’ da parte del genitore che parla la L2 di migliorare le conoscenze e competenze linguistiche tramite corsi, letture, contatti con persone madrelingua, soggiorni e cosi’ via…: tutte cose che io gia’ faccio, ma che non ritengo sufficienti nel mio caso.
Ecco, mi fermo qua. Scusatemi per lo sfogo, ma come al solito, Letizia, hai toccato temi che mi stanno molto a cuore e so che il tuo blog mi aiutera’ molto a capire di piu’.
Un abbraccio,
Elisabetta
Bilingue Per Gioco says
Elisabetta,
io (opinione personale) eviterei di macerarmi nel dubbio, se senti che parlare sempre e solo Inglese con tuo figlio non e’ piu’ la cosa giusta per te, e per voi, non farlo. Semplicemente segui il tuo istinto di mamma. Trova un routine per l’Inglese, non so un momento giornaliero per leggere, una sera alla settimana a cena si parla inglese, cose cosi’ e per il resto passa all’italiano, che comunque e’ la tua lingua. Essere mamma e’ molto di piu’ che insegnare una lingua! E la lingua non dovrebbe mai diventare un peso, se no che gusto c’e’. Hai gia’ fatto tanto e continuerai a farlo, non preoccuparti!
L.