L’autrice di questo post e’ Claudia, il suo blog e’ La Casa nella Prateria
La nostra è una famiglia bilingue. Oserei dire, parafrasando il titolo di questo blog, “bilingue per forza”. Nel senso che ognuno dei due genitori parla ai figli nella propria lingua madre. Questa ci è sembrata, all’epoca, la sola soluzione possibile. Ma l’espressione “per forza” non vuole avere, ovviamente, una connotazione negativa. Avendo studiato le lingue, ero cosciente del fatto che questa fosse per i miei figli un’incredibile opportunità. Ogni tanto li invidio anche, per la naturalezza con la quale passano da una lingua all’altra senza il minimo sforzo.
Ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito in Francia e, siccome lui non conosceva l’italiano, abbiamo comunicato fin dall’inizio in francese. Questa è la lingua che utilizziamo tuttora tra di noi. I bambini hanno passato i primi anni della loro vita a casa con me, immersi nell’italiano.
Leonardo e Gloria parlavano in italiano con me e tra di loro, e in francese con il papà e con il “resto del mondo” (viviamo in Francia). Erano quindi esposti in maniera abbastanza equa ad entrambe le lingue, ed il loro bilinguismo è stato fin da subito molto equilibrato.
Con l’inizio della scuola, però, i bambini hanno iniziato a parlare francese tra di loro. Il che significa una netta prevalenza della lingua francese nelle loro vite. Se è vero che parlano perfettamente l’italiano con me e che per il momento la loro padronanza della lingua italiana non sembra “a rischio”, mi sono spesso chiesta come fare per evitare che l’italiano diventasse, alla lunga, una sorta di “seconda lingua”.
Tra gli innumerevoli spunti interessanti che Letizia offre sul suo blog e nel suo e-book, c’è quello del gioco di ruolo. Associare una lingua a determinati giochi permette di insegnare un idioma ai propri figli senza creare confusione, come avverrebbe se si passasse indiscriminatamente da una lingua all’altra.Noi abbiamo stabilito, ad esempio, che Luce e Max, le due bambole Waldorf che ho confezionato per loro, sono italiani. Spontaneamente, quando giocano con loro, i bambini parlano in italiano. In questo modo, praticano un po’ di più quella lingua che altrimenti rischierebbe di finire un po’ nel dimenticatoio.
Le bambole Waldorf appartengono alla tradizione steineriana. Come tutti gli altri giochi steineriani, hanno un aspetto volutamente rudimentale. Lo scopo è quello di lasciare al bambino l’opportunità di interpretare liberamente l’espressione e lo stato d’animo della bambola.
Si tratta di bambole fatte a mano, con cura ed esclusivamente con materiali naturali. La bambola Waldorf può essere più o meno “sofisticata”. Dalla semplicissima bambola-fazzoletto, adatta fin dai primi giorni, alla bambola-sacchetto, alla bambola vera e propria.
Ho scoperto le bambole Waldorf quando mi sono avvicinata alla pedagogia steineriana, e me ne sono subito innamorata. Ho scoperto che realizzare una bambola (Waldorf o meno) per il proprio bambino, significa offrirgli qualcosa di unico. Un oggetto pieno di amore e di energia positiva. I miei bambini (sì, anche Leonardo!) adorano le bambole che ho fatto per loro. Se ne prendono cura e fanno persino lo sforzo di parlare loro lingua. Sforzo che non sempre con la mamma sono motivati a fare.
Non è necessario essere delle sarte provette, né avere una macchina da cucire per realizzare una bambola Waldorf. L’unica cosa necessaria è un po’ di pazienza per portare avanti, un punto alla volta, il vostro progetto.
In genere le scuole steineriane organizzano corsi per imparare a confezionare le bambole. Per chi volesse imparare da sé, il libro “Bambini e bambole” di K. Neuschutz è tra i più popolari in materia. Nel mio e-book “come realizzare una bambola Waldorf” troverete, oltre ad una breve introduzione, il cartamodello e le istruzioni per realizzare una bambola come questa, compresi i vestiti e il pannolino.
Immagine e bamboline tutte made in La Casa nella Prateria, non sono deliziose?
silvia says
Volevo sapere se questo libro può essere utile anche in una famiglia in cui siamo tutti della stessa lingua.. Io sono laureata in Lingue ma non sono certo madrelingua, e so che una lingua è fatta di tutto un mondo e non solo di parole.. Grazie! Silvia
Bilingue Per Gioco says
Silvia,
hai ragione, la lingua e’ cultura, e identita’ (quando parliamo di lingua d’origine). Imparer una lingua senza avere apertura e interesse per la cultura ad essa associata e’ limitativo, ma del resto non imparare affatto una lingua e’ ancora piu’ limitativo, e senza lo strumento della lingua difficilmente si arrivera’ mai a capire un’altra cultura. Quindi, secondo me ha senso cercare di imparare una lingua, e poi fare della lingua lo spunto e lo strumento per esplorare altri mondi e altre culture, anche solo attraverso i libri.
Spero di aver risposto alla tua domanda!
L.
Elena says
Bella idea, e molto interessanti le informazioni sul metodo Steiner. Lo conoscevo già (ho il dépliant delle scuole waldorf italiane sul comodino, tanto per farmi del male ogni tanto!) ma non sapevo nulla delle bambole Waldolf. ciao, Elena
Bilingue Per Gioco says
Ciao Elena,
queste bambole sono davvero bellissime. Anche io sto cercando il coraggio di cimentarmi nell’impresa (non ho mai cucito nulla, anche se so lavorare sia a maglia che all’uncinetto, vi farei vedere la coperta che ho fatto ad A. quando e’ nato!), ma queste bambole continuano a tentarmi, soprattutto da quando Sabine (l’esperta, nonche’ psicologa, l’avete presente?) mi ha detto che “il faut” (BISOGNA) avere una bambola anche per i maschietti. I bambolotti proprio non mi dicono nulla, ma queste bambole….
Dai se qualcuna si butta, o l’ha gia’ fatto, condivida l’esperienza. Motivatemi e motivateci. Convinceteci che si puo’ fare anche senza aver mai tenuto in mano un ago!
Yes we can!
L.
Claudia - La Casa Nella Prateria says
In molte scuole steineriane i bambini cuciono le loro prime bambole in quinta elementare. Ti basta? 😉
Tamara says
Ciao ragazze (Letizia e Claudia), vi seguo sempre perché date sempre ottimi spunti di attività da far fare ai piccoli, di Claudia condivido molte cose, anche se non tutte, ma l’argomento del bilinguismo per gioco mi lascia molto perplessa.
Premetto che io vivo da 2 anni in Norvegia, ho due figli, uno di 3 anni e mezzo e una di quasi due anni. Il fatto di parlare ai figli in una lingua che non è la nostra non è una buona cosa, e non sono io a dirlo ma studiosi in materia. Per quello che riguarda la mia esperienza, mio marito è italiano quindi i nostri figli parlano benissimo l’italiano che è la loro lingua madre, ma per quello che concerne il norvegese, il mio bimbo più grande la sta imparando ora, anzi, in 3 mesi di asilo la parla perfettamente, usa la lingua giusta al momento giusto, senza faticare a passare da una all’altra. Anche in asilo mi hanno detto di non parlare il norvegese in casa perchè rischia di fare confusione. Parlare una lingua in casa e una fuori gli permette di divenire bilingue naturalmente senza alcuno sforzo, l’inglese verrà da sè visto che fuori, sia io che mio marito, parliamo inglese.
La lingua che parla la madre sarà una lingua “speciale”, anche se dovesse parlarla solo con la madre, il fatto di usarla non diverrà mai una lingua morta per lui, perchè solo la lingua della memma sa trasmettere l’affetto, portandosi un bagaglio di ricordi ed emozioni a livello molto intimo che nessun’altra lingua potrà mai fare.
Bilingue Per Gioco says
Ciao Tamara,
se mi dai i riferimenti degli studiosi a cui ti riferisci consulto con molto piacere.
Per quanto mi riguarda ci tengo sempre a precisare che niente e’ piu’ lontano dalle mie intenzioni che suggerire di abbandonare la lingua materna per una lingua straniera, ma esistono le vie di mezzo! Imparare una lingua, per gioco, dedicandole un po’ di spazio come si potrebbe fare con la musica, lo sport o un’altra attivita’ non credo proprio possa portare a disturbi di alcun genere. Io di certo non ho visto ricerche in questo senso, anzi, vedo esperti che promuovono queste iniziative…
Capisco le perplessita’, e concordo sul fatto che il bilinguismo ideale e’ quello della famiglia mista o espatriata, questo non significa che tutti gli altri siano condannati a parlare, anzi diciamo capire, solo una lingua…
L.
Tamara says
Non sono contraria ai giochi, facendo avvicinare il bambino ad una nuova lingua, ma questo non è bilinguismo. Proprio per la mia situazione di vita, poco tempo fa avevo parlato con un insegnante di lingue, laureata in lingue, che vive all’estero, la quale mi ha dato alcuni consigli anche di lettura e ti posso tranquillamente dare questi riferimenti.
Gli studiosi sono: Penfield, Roberts e Francescato.
In particolare li si trova citati in “Psicolinguistica, Socioinguistica, Glottodidattica”, di Giovanni Freddi, nel capitolo dedicato al Plurilinguismo, quando si parla dell’età ottimale per imparare le lingua.
Ti riporto le sue parole: Freddi parte da osservazioni di Penfield sulla plasticità cerebrale in periodo prepuberale, che permette di individuare una finestra ideale di inizio tra i 4 e gli 8 anni, ed un picco di plasticità tra gli 8 e i 10. Poi si sposta sul piano della glottodidattica pura e riassume Penfield sotto la formula: “due lingue due persone diverse” che equivale a “due lingue due ambienti diversi” e cito: per “RISPARMIARE AL BAMBINO TURBE COGNITIVE, AFFETTIVE E DI ALTRA NATURA“.
Spero che questo faccia riflettere un po’ anche voi, io ci ho pensato molto e per questo motivo mi sono sentita di commentare.
Bilingue Per Gioco says
Tamara,
se gli esperti non sono riusciti ad accordarsi su una definizione di bilinguismo non vedo perche’ dobbiamo anche solo provarci noi, per quanto mi riguarda prendo atto del fatto che non ci sia una definizione univoca e peraltro poco importa che si parli di bilinguismo o apprendimento precoce delle lingue.
Quanto alla citazione che menzioni tu, la trovo un po’ scarna per trarne conclusioni. Che la lingua vada associata ad una persona o ad un contesto si sa, proprio per aiutare il bambino a capire cosa si parla quando, il che corrisponde poi all’importanza di instaurare una routine. Da qui a dedurre che se un genitore ritaglia degli spazi per giocare in una lingua straniera con i figli ne conseguono turbe affettive o quant’altro la vedo dura.
Ripeto, per quanto ne so, e per quanto mi hanno detto esperti del settore, il fenomeno non e’ stato studiato, quindi nessuno puo’ dare certezze in merito. Ci sono molti esperti che incoraggiano questa pratica, con le dovute raccomandazioni tese a preservare prima di tutto la serenita’ del bambino e a non danneggiare la comunicazione genitore-bambino. Oltre alla varia letteratura citata e agli esperto che hanno scritto sul blog, per esempio, ho preso contatti anche con il prof. Fabbro, autore di Neuropedagogia delle lingue, e anche lui ha detto di non sconsigliare affatto che un genitore proponga una lingua ai figli, di averlo fatto lui stesso con i suoi (sempre con le dovute precauzioni).
Comunque hai ragione ad invitare alla riflessione, e io sono la prima a dire che bisognerebbe pensarci per bene prima di fare dei tentativi in questo senso. Guardero’ il libro che citi, mi sa che e’ questo “Psicolinguistica, sociolinguistica, glottodidattica. La formazione di base dell’insegnante di lingue e di lettere” di Giovanni Freddi.
L.
Tiziana says
Ciao,
vorrei sapere se c’è un “troppo presto” o “troppo tardi” per iniziare a insegnare qulacosa in una seconda lingua in una famiglia non madrenlingua…
Non so se questa è la sessione giusta ma sono “nuova”.
Grazie mille 🙂
vanessagc says
Bellissimo il vostro sito per i bilingui (e non)!! Claudia la conoscevo già e sono arrivata a voi grazie a lei!! Uno dei miei prossimi progetti… la bambola waldorf!!
vanessagc says
PS: vi ho linkati nel mio ultimo post!
Ciaoo
Bilingue Per Gioco says
Grazie Vanessa,
e sono molto contenta che ti sia piaciuto tanto. Visto che non lo metti tu lo metto io il link al tuo post: A proposito de bilingüismo .
L.
Antonietta says
Ciao,
spero di non indisporre nessuno se lascio qui anche la mia opinione riguardo l’argomento in discussione.
Credo che si stia facendo confusione tra” bilinguismo” e” insegnamento di una lingua straniera”,
Sono decenni che la maggior parte delle mamme insegna al bambino parole straniere, cercando con il gioco di prepararlo all’ingresso a scuola con meno difficoltà possibili da affrontare e questo è un approccio positivo perchè passa attraverso la ludicità. Lo si può considerare anche un metodo per capire se il bambino ha predisposizione all’apprendimento di lingue straniere. Ma non ha nulla a che fare con il bilinguismo giacchè esso è uno status semplice e automatico che permette al bambino di pensare e colloquiare in un altra lingua con la stessa facilità con la quale lo facciamo noi adulti nella nostra lingua madre, status che è possibile solo quando si vive in una comunità che parla un’altra lingua.
Ciao
Bilingue Per Gioco says
Antonietta,
a costo di ripetermi devo sottolineare che fior fiore di esperti discutono di questi temi senza trovare accordo. Quindi le opinioni non sono altro che questo, opinioni… Potrei aggiungere che molto inchiostro e’ stato speso per contraddire proprio la definizione di bilinguismo che tu dai (“il bilinguismo… è uno status semplice e automatico che permette al bambino di pensare e colloquiare in un altra lingua con la stessa facilità con la quale lo facciamo noi adulti nella nostra lingua madre”), sulla quale anzi mi sento di azzardare che c’e’ unanimita’ nel ritenerla un luogo comune ma errato, basti consultare un qualsiasi libro sul bilinguismo. Comunque ripeto, una definizione univoca di bilinguismo non c’e’.
Aggiungo anche che alla conferenza su Language Early Learning organizzata a Settembre dalla Comunita’ Europea si e’ trattato indifferentemente il tema del bilinguismo e dell’apprendimento precoce delle lingue, in modo quasi eccessivo, perche’ delle differenze ci sono, ma evidentemente non si puo’ dire che siano due temi che non hanno nulla in comune.
.
Mary says
So che questo thread era originariamente dedicato alle bambole Waldorf, ma visto che la discussione ha deviato leggermente per spostarsi sul significato di bilinguismo, faccio riferimento ai post in cui viene detto che ancora non si è concordi su una definizione in materia.
Non sono d’accordo con questa affermazione, e ritengo che nel corso degli anni ormai si sia giunti ad un accordo: la distinzione cioè tra bilinguismo (o di plurilinguismo, se si parla di più di due lingue) in senso stretto ed in senso ampio.
Semplificando, per bilinguismo in senso stretto si intende la completa e profonda padronanza di due lingue, nelle quattro competenze fondamentali: leggere, scrivere, parlare ed ascoltare. Per esempio, un bambino cresciuto in Francia, ma figlio di genitori danesi, che parla francese a scuola e con gli amici, e danese a casa con la famiglia, è un bambino bilingue in senso stretto.
Il bilingue in senso ampio invece è quella persona che abbia un qualsiasi contatto con una lingua diversa dalla propria. Un bambino di 10 anni che ha da poco iniziato lo studio di una lingua a scuola, e sa dire i colori e i numeri fino a dieci in quella lingua, è perciò esposto a bilinguismo in senso ampio. Un signore di 55 anni che viene obbligato dalla sua azienda a partecipare ad un corso di formazione per imparare i rudimenti di una lingua straniera è esposto a bilinguismo in senso ampio.
Fin qui la teoria.
Non attacchiamoci però a definizioni sterili.
Normalmente in italiano corrente, se non diversamente specificato, si parla di bilinguismo riferendosi al bilinguismo in senso stretto. Si può facilmente immaginare che la maggior parte delle mamme che consultano questo ed altri siti sperino che i loro bambini diventino bilingue in senso stretto, o che quantomeno abbiano con il tempo una competenza almeno medio-alta della lingua che gli impartiscono. Fingere il contrario mi sembra inutile.
Antonietta says
Io non so se “fior fiore di esperti discutono di questi temi senza trovare accordo”, quello che so è che un bambino italiano, che vive in Italia, che viene istruito dalla madre all’apprendimento di una lingua straniera, non sarà un bilingue, perchè manca il presupposto basilare: vivere a contatto diretto con l’altra cultura e l’altra lingua, diversa dalla propria, che sviluppa nel bambino la peculiarità del bilinguismo. Naturalmente, avendone le capacità, una madre può insegnare al proprio bambino anche due lingue straniere e questo è positivo anzi auspicabile visti i tempi, a patto che sia fatto bene.
Quindi non direi che la definizione che io ho dato del bilinguismo sia un “luogo comune ma errata” e credo di dover considerare l’ “unanimità” che lei paventa, un avverbio di quantità… eccessiva, se pensiamo che ci sono scuole che insegnano lingue straniere in modalità “full immersion” in tutto il mondo e non per questo hanno pretese di formare bambini o adulti bilingue! Purtroppo o per fortuna, le parole hanno un significato, almeno per me.
Ciao e scusi se l’ho costretta a ripetersi ma, come vede anche io non me ne astengo se penso che ne valga la pena.
Le auguro buon lavoro.
Bilingue Per Gioco says
Antonietta, Mary, Tamara,
credo sia giusto e doveroso avere un dibattito su questo tema, delicatissimo e centrale a tutto il discorso dell’apprendimento delle lingue. Credo sia anche assolutamente inevitabile e sano che ci siano dei punti di vista diversi, e vorrei che le cose non venissero personalizzate.
Le opinioni che esprimete sono assolutamente normali, nel senso che si rifanno all’idea che comunemente e intuitivamente si ha di bilinguismo. Il dibattito sul bilinguismo e’ annoso e acceso, per mille e disparati motivi, quindi senza voler qui convincere nessuno di nulla vi lascio degli spunti. Chi e’ interessato potra’ partire da quesi spunti e fare degli approfondimenti, oppure offrirci altri spunti come ha fatto Tamara.
King and Mackey in The bilingual edge:
“Myth #1: Only bilingual parents can raise bilingual children (and bilingual parents always raise bilingual cildren)” pg.19
“Myth #3: Only native speakers and teachers can teach children second languages, pg. 22”
“Many people … think of bilingualism in somewhat idealized terms and to define a bilingual as someone who is equally balanced in both languages. …. Yet this true bilingual is largely a myth….” pg.201
Barbara Zurer Pearson in Raising a Bilingual Child:
su diverse categorie (non definizioni di bilinguismo), pgg. 89-90
su genitori non madrelingua e bambini bilingui: pgg. 146-148
Harding Hesch and Ridley in The bilingual family:
“if you ask people in the street what ‘bilingual’ means, they will almost certainly reply that it is being able to speak two languages ‘perfetcly’. Unfortunately, we cannot even describe exactely what speaking one language exactely means. … so many different definitions of bilingualism exist and …. none is satisfactory or exhaustive”, pg.22
What is bilingualism? http://www.naldic.org.uk/ITTSEAL2/teaching/B1.cfm
Defining Multilingualism http://www.lsadc.org/info/ling-fields-multi.cfm
La conclusione fondamentale che se ne puo’ tarrre credo e’ che per quanto riguarda il bilinguismo abbiamo ancora molte domande aperte e c’e’ ampio spazio per il dibattito.
L.
Theo says
Buongiorno a tutti, volevo solo dare la mia umile opinione sul tema.
Possiamo passare ore ed ore a discutere su che cosa significa “essere bilingue” o “bilinguismo”. Tuttavia, mi sembra chiaro un punto: se una volta adulta, una persona cerca lavoro e sul curriculum vitae scrive “bilingue”, lo si intenderà in senso stretto, altrimenti, una volta messa alla prova, si metterà in ridicolo (pronuncia, scorrevolezza, comprensione, sintassi, capacità di passare da un registro all’altro, proprietà lessicale…).
Se poi vogliamo trasformare il bilinguismo in un “Made in Italy”, allora abbiamo milioni di italiani bilingue o trilingue in senso ampio… no, in senso assurdo. Perché io parlo scorrevolmente russo ed inglese, anzi, insegno inglese, ma non per questo mi sento bilingue, e non mi è mai passata per la testa l’idea di considerarmi tale. Perché sì sono bilingue, ma italiano – spagnolo. Essere bilingue significa avere una marcia in più. Non perché si parla perfettamente un’altra lingua, ma perché si ha una padronanza “personale” che uno studente non potrà mai ottenere (se non trasferendosi all’estero, e dopo anni di vita all’estero).
Altrimenti, se considero il fatto che comprendo perfettamente il francese e me la cavo in una conversazione, cosa divento? Pentalingue? Ah, ho studiato per tre anni tedesco… lo leggo perfettamente senza capire un’acca, potenzialmente potrei contare fino a infinito, e coniugo perfettamente qualsiasi verbo regolare… E capisco anche il catalano… Eptalingue?
Nossignori, non funziona così. Mi piacerebbe, ma, ufficialmente, non lo sono. E per fortuna non lo sono, perché sminuirei il mio bilinguismo italiano-spagnolo.
Chiara says
Mi sembra che questa querelle su cosa esattamente sia il bilinguismo sia abbastanza sterile. La cosa più importante secondo me è riuscire a dare a un bambino fin da piccolissimo il massimo delle opportunità di conoscere altre lingue e comprendere altre culture: se arriverà a sentirsi lui bilingue sarà bilingue, se no per male che vada, saprà bene un’altra lingua e conoscerà bene un’altra cultura, fatto che gli aprirà la mente rispetto ad altre lingue ed altre culture in generale. Con mia figlia, che oggi ha 5 anni, ho iniziato a “esporla” alla lingua inglese fin da piccolissima in vari modi che sarebbe qui inutile stare a elencare, ma che coincidono per molti aspetti con quanto scrive Letizia. L’ho fatto senza consultare studi in materia, spinta solo da passione ed entusiasmo e dall’esempio della figlia di mia sorella (italiana come me e mio marito) e di uno svedese, nata a New York e residente da 5 anni in Francia. Premesso che i genitori parlano tra loro in inglese e con lei nella rispettiva lingua madre e che lei frequenta scuole francesi, il risultato è che oggi, a 7 anni, questa bimba parla tre lingue perfettamente, italiano, svedese e francese, e se la cava benissimo in inglese. E’ trilingue? E’ quadrilingue? Ha importanza? A scuola (francese) è bravissima e non le vedo turbe cognitive di alcun tipo. Tornando a mia figlia, oggi a 5 anni, pur avendo una normalissima vita italiana e parlando benissimo l’italiano, quando gioca da sola parla in inglese e fa parlare bambole e pupazzi rigorosamente in inglese. Anche con noi spesso, soprattutto quando si gioca insieme, parla in inglese, ma non mischia mai le due lingue. E preferisce vedere i dvd e sentire i cd in inglese. Quest’estate al mare con bambini inglesi, che non sapevano una parola di italiano, ha giocato da mattino a sera senza problemi né da parte sua, né da parte loro, anzi i genitori inglesi le riscontravano un accento americano, ma mai avrebbero pensato a una “not english mother tongue”? Può essere “tecnicamente” definita bilingue? Francamente non me ne importa molto.