Avete letto bene: falsi mici. Io i falsi amici me li immagino proprio così: come dei micioni birichini che si stiracchiano, mezzi assonnati, birbantelli, che si prendono gioco di noi poveri itagnoli.
Fino a poco tempo fa, a casa mia si mangiava en la tabla. Mia figlia, tre anni e mezzo, ha finalmente capito che si mangia en la mesa, mica en la tabla, ma la fase “todo el mundo a la tabla” è durata per un po’. Adesso però ha capito che la tabla (tavola, stecca di legno) è una cosa, la mesa (mobile) un’altra. E che invece in italiano sono entrambe tavole.
I falsi mici ci regalano momenti indimenticabili di risate garantite, ma anche momenti di sconforto. Ricorderò per sempre il giorno in cui, al parchetto, una nonnina fece i complimenti a mia figlia, all’epoca duenne:
Ma che bella pupa!
Mia figlia andò subito nel panico:
Oh no, mami, ¿dónde tengo la pupa?
Già, perché la pupa italiana nulla ha a che vedere con la pupa spagnola, che è la tanto temuta e sofferta bua. E hai capito, la nonnina: prendeva pure in giro! Come può essere bella una bua??
Una coppia di amici un giorno temette che mia figlia fosse un tantinello troppo avanti per la sua età, quando, nel bel mezzo di una nostra conversazione sui massimi sistemi, se ne uscì con la seguente affermazione:
Mmmm, ¡me gusta el quesito!
Affermazione che loro, non conoscendo lo spagnolo, non poterono collegare al suo contemporaneo allungamento di manina verso il vassoio dei formaggi. Già se la immaginarono che si poneva grandi, appunto, quesiti esistenziali e partecipava della nostra conversazione da adulti. E invece no: lei pensava a magna’ e basta, e di quel che dicevamo noi non gliene poteva frega’ de meno. [Quesito: diminutivo di queso, formaggio]
I falsi mici itagnoli regalano momenti di divertimento garantito da entrambe le sponde del mare nostrum. Che dire di quella volta in cui mia figlia chiese alla nonna la colación [collazione]? Chissà con quale orgoglio la nonna guardò la nipote, immaginandola vincitrice di un premio nobel di letteratura. E invece no: stava soltanto chiedendole el desayuno [colazione].
Soffermiamoci un po’ adesso sui festeggiamenti itagnoli.
¡Cumpleaños feliz, cumpleaños feliz. Sopla las velas! [Soffia le candele]
¿Pero dónde está el barquito de vela? [Ma dov’è la barchetta a vela?]
Oppure:
Abuelita, abuelita, yo soplo las candelas. [io soffio le braci]
E lì ti ritrovi la povera nonna che teme per la sua incolumità e per quella di tutto il vicinato, ché in Andalusia la candela è il fuoco sul quale cucinare e quindi c’è poco da scherzare quando una bimba minaccia di soffiare sul fuoco.
Oppure quando la nipotina treenne inorridì davanti all’intenzione della nonna di ponerle la cola al gato che stavamo disegnando. “Abuelita, nooooo, poooobre gatito”. Già se lo immaginava appiccicoso di colla, povero animaletto. Ma, tanto, avrebbe sofferto ben poco, dal momento che era comunque un falso micio. [Cola – coda, ma anche colla]
Che dire anche di quella volta quando la treenne fece un per niente pindarico volo e finì con un ginocchio sbucciato e un lividone sulla gamba? Dopo l’affermazione risolutiva della nonna:
Ahora vamos a ponerle hielo al cardenal.
mio marito, scartata l’ipotesi che la nonna fosse intenzionata a scolarsi un Cardenal Mendoza Gran Reserva in un momento di simile pathos (ché la nonna è astemia, più che altro) si chiese che c’entrasse il Vaticano in tutto ciò. [Cardenal – livido]
Oppure quella volta al parchetto, sempre in Spagna, quando dopo un fortissimo boato mia figlia mi chiese, in presenza di altri spagnoli che non conoscono l’italiano, con occhi sgranati dalla sorpresa, il che rendeva la situazione ancora più ambigua:
¿Has oído ese rumor?
“Piccola pettegola, che non sei altro”, avranno pensato gli amici spagnoli. [Rumor (accento sulla -o) è pettegolezzo. Invece rumore è ruido in iberica terra. E dunque lei aveva detto “Hai sentito quel pettegolezzo?”, quando invece voleva dire “Hai sentito quel rumore?”]
Ci sono poi gli appellativi. Io a mia figlia la chiamo spesso mimosa. Inteso ovviamente nel senso spagnolo, ossia coccolona, affettuosa. Mio marito, non padroneggiando benissimo lo spagnolo, inizialmente si chiedeva come mai io sentissi l’impellente bisogno di apostrofarla con il nome di un albero. Altrettanto, mio marito scoprì che non avevamo perso qualche rotella, io e lei, quando ci rivolgevamo a uno dei suoi pupazzetti con l’appellativo monito. Chissà quale ammonimento atroce pensava che intendessimo rivolgere al povero peluche…. [Monito – scimmietta]
Un altro falso micio duro a morire a casa nostra è cinta. Questo è il dialogo avvenuto tra me e mia figlia la prima volta che abbiamo incartato un regalo insieme:
Io: Ahora para terminar le vamos a poner una cinta de color rojo.
Lei: ¡Yo la cojo!
Già lì mi sono incuriosita, dal momento che la cinta roja era sul tavolo. Ma quando è tornata con il suo cinturón rojo, ho capito. [Cinta (es) – nastro (it); cinturón (es) – cinta (it)]
Ci sono anche i greatest hits dell’itagnolismo. Chi non si sarà fatto due risate con la mosquita, il mosquito, il moscerino e la mezquita (che il 90% degli italiani che conosco chiamano mosquita)? Grandi classici, proprio così, come burro/asino/mantequilla.
Nel mio lavoro di ricerca ho incontrato alcuni itagnoli (coppie miste, in realtà; uno italiano e l’altro ispanofono) che si preoccupano per la loro prole. “Sai, ho paura che questi falsi amici li confondano ulteriormente”. E dunque hanno pensato di trovare dei termini alternativi in una delle due lingue, normalmente quella minoritaria (già di per se penalizzata dalla minore frequenza e inferiore contesto d’uso). E dunque il burro ha smesso di essere un burro in spagnolo ed è diventato un asno. Sì, è vero, il termine asno esiste e si usa anche. Peccato che nel registro parlato, colloquiale, e soprattutto dei bambini non si adoperi mai. Io me li immagino questi bimbi se poi vanno in ferie in Spagna e, magari mentre guardano un libro o un cartone (o MAGARI mentre li vedono dal vivo) se ne escono “oh mira, un asno”. Gli sguardi degli altri bimbi (e adulti) saranno tutto un programma.
Non fraintendetemi, non sto dicendo che insegnare ai bimbi la parola asno sia sbagliata. È errato invece, secondo me, che non conoscano la parola burro nella sua accezione spagnola. Farli vivere sotto una capanna di vetro serve a ben poco, dal momento che la lingua è uno strumento di comunicazione e, se non raggiunge il suo obiettivo (interagire e comunicare) lascia il tempo che trova. Ma soprattutto: mica è possibile scervellarsi in questo modo, ché i falsi mici non sono tutti sostituibili con altre parole. Mi chiedo come se la caveranno con gli intramontabili subir/salir e compagnia bella.
Ad ogni modo, non è un’abitudine che io biasimi, ci mancherebbe. L’ho adoperata anche io, qualche volta, quando ho percepito un po’ di confusione della pupa (una bua?? dove??) all’interno della stessa lingua spagnola. Ad esempio, a casa nostra il parque è appunto il parco, mentre invece il box, che in Spagna viene chiamato parque lo stesso, da noi è diventato il parquecito.
Perché c’è anche, come ben sappiamo, il lessico famigliare, che va oltre una lingua o l’altra o persino la commistione di entrambe. Così, da noi il tarallo rimarrà per sempre titti, grazie alla lengua de trapo di mia figlia. Per qualche strana ragione io non dico “vamos a echarnos la siesta” ma “vamos a la nina”; il pannolino non è semplicemente pañal, ma è diventato pañalín, giusta via di mezzo tra una lingua e l’altra. La bimba capisce tutti e tre i termini, ma quando siamo tra di noi pañalín stravince. I bizcochos (sorta di muffin) che cuciniamo insieme io e mia figlia sono passati da bizcochos del osito (muffin dell’orsacchiotto, per via del disegno di un orsacchiotto sulla confezione delle formine di carta) a direttamente bizcositos (neologismo coniato da lei). Che, detto così, fa anche un po’ senso, visto che bizco in spagnolo vuol dire strabico. Insomma, noi a colazione pucciamo uno strabichello nel latte.
Ci sono poi gli aneddoti simpatici che riguardano altre lingue, come quando la migliore amichetta anglofona di mia figlia afferma: “sono finita!” (I’m done!) e mia figlia lo interpreta sempre come “sono stanchissima”. Ancora non ho capito bene da dove derivi questa sua interpretazione, forse ci mette una –s davanti a finita? Certamente sfinita mi sembra un termine un po’ troppo ricercato per una treenne, ma mai sottovalutare i bambini e le loro antennine. Propendo, piuttosto, per l’ipotesi secondo la quale la sensazione che trasmette una persona che afferma di essere finita è che non riesce più ad andare avanti, che le sue energie si siano esaurite. Fatto sta che non c’è verso: l’una non riesce a dire “ho finito” e l’altra non riesce a capire che la sua amichetta non è stanca!
Gli esempi della nostra quotidianità sono tanti e chiaramente esulano dai falsi mici e dai neologismi itagnoli. Durante un viaggio, mia figlia ritenne che la galleria doveva essere il posto dove vivono le galline, e passò un bel po’ di tempo a chiederci, ogni volta che entravamo in galleria, dove fossero le galline. Per non parlare di quella volta in cui mia figlia, per riferirsi alla matematica, disse antipatica. Questione di assonanze.
¿Y vosotros? Quali sono i falsi mici più gettonati della vostra famiglia?
L’autrice di questo post è Carolina, che cura la rubrica Itañoles
Immagine: El gato tragón
Avrei potuto modificare il post, ma no: rimanga per i posteri. CAPANNA DI VETRO.
Aiuto, il falso micio ha graffiato anche me! 🙂
(Grazie, Eva, per la precisazione)
Ma che bella pupa… ¡Buenísimo! Me ha encantado este post. non parlo italiano con mio figlio quindi, non posso aggiungere + fasi amici
E i falsi (a)mici tra altre lingue? Mica devono essere solo itagnoli! 🙂
ahaha, gli itagnoli stanno messi proprio bene a false amicizie! Comunque PUPA è un brutto micio anche per i poliani (polacco-italiani 🙂 ): in polacco significa “culo”, e per rimanere in tema aggiungo “kula” che significa “palla, sfera” ed è una parola che la nostra bimba usa spesso quando vede forme rotonde: “Tata [papà], kula!!!”
Adoro i tuoi post…
Grazie, Carla! 🙂