Abbiamo dedicato il primo appuntamento alle Neuroscienze Cognitive, che cercano di indagare come la mente elabora il linguaggio, quali fattori giocano quale ruolo, che differenze ci sono tra mono e bilingui etc. Alla dimensione mentale, interna, fa -diciamo- da complemento la dimensione esterna, sociale.
Quando impariamo le prime lingue (e anche le seconde, terze…) e quando le usiamo, lo facciamo in relazione ad un determinato contesto sociale, che ha le sue regole. La socializzazione linguistica è il processo per cui un apprendente sviluppa la sua competenza comunicativa attraverso le interazioni con persone più esperte. Questo settore di ricerca si occupa di capire come si impara ad usare una lingua nei modi specifici di ogni cultura così da diventare “partecipanti attivi e competenti di una o più comunità”.
Oggetto di studio di questa disciplina non sono le abilità mentali o le forme linguistiche prese in isolamento, ma tutte le azioni di socializzazione compiute attraverso il linguaggio: “questo vuol dire che le comuni conversazioni sono una fonte continua per la trasformazione del sé e della società e che per studiare la socializzazione è necessario comprendere il modo in cui sono organizzate le conversazioni in particolari situazioni all’interno di specifiche comunità”, tenendo anche conto del potenziale creativo che ogni singola persona ha all’interno di un repertorio di risorse condivise.
Facciamo qualche esempio: quando un genitore europeo o americano loda il proprio figlio, questo fatto ha a che fare con la concezione di successo individuale sviluppata da quelle specifiche culture.
Studi molto importanti (ad esempio questo o questo) hanno dimostrato che ci sono culture che usano anche in famiglia un modo di comunicare simile a quello che viene poi richiesto a scuola, mentre in altri gruppi la distanza tra i due mondi linguistici è tale che per i bambini possono esserci conseguenze negative nella carriera scolastica. Per fare un esempio, a scuola spesso l’insegnante si aspetta una domanda molto elaborata, mentre a casa si accetta anche una risposta ridotta al minimo: se a casa una risposta breve a volte è anche la benvenuta, potrebbe essere un problema a scuola se un bambino ad un tema che gli chiede “Racconta dove sei andato domenica” rispondesse “Dai nonni.” Punto. Per questi motivi, può essere importante iniziare in età prescolare a far fare ai bambini esperienza di modalità sempre più complesse di interazione ed offrirgli sempre un repertorio di esperienze comunicative vasto.
Le cose si complicano ulteriormente quando codici comunicativi diversi entrano in contatto. Ciò che ci si aspetta da una parte può non essere la risposta preferita dall’altra. Un esempio classico è quello dei complimenti: in alcune culture ci si aspetta che ad un complimento si risponda semplicemente dicendo “Grazie!”, mentre per altre è molto importante che chi riceve il complimento minimizzi il più possibile la sua portata, andando da un “Ti piace? Me l’hanno regalata” ad un “Figurati! L’ho presa ai saldi” fino alla restituzione immediata del complimento “Anche la tua giacca mi piace tantissimo!” E le situazioni imbarazzanti sono sempre dietro l’angolo, quando, pur usando una lingua nel modo linguisticamente più impeccabile, si risponde o si interagisce usando le pratiche comunicative proprie di un’altra cultura, violando le attese e le preferenze del nostro interlocutore.
E’ stato visto che questo tipo di conoscenza linguistica spesso resiste anche quando una comunità acquisice la lingua di un’altra comunità. Ad esempio, uno studio del 2001 (link), analizzando una comunità Navajo, ha dimostrato che anche quando gli adulti parlano in inglese con le nuove generazioni, continuano a mettere in atto le pratiche comunicative proprie della loro cultura, trasmettendone anche i valori sottostanti. La studiosa suggerisce che ci sono aspetti comunicativi legati ad una lingua che resistono anche quando si cambia il codice e che sono esattamente questi aspetti taciti e impliciti dell’interazione comunicativa di una comunità che sono i più pervasivi e resistenti al cambiamento.
Le sfide che ne derivano per le famiglie plurilingui sono innumerevoli: se imparare una lingua è complesso, imparare ad usarla nella sua complessità sociale richiede di fare tante esperienze, di mettere in conto qualche fraintendimento e di sviluppare un orecchio linguistico sensibile alle problematiche della comunicazione interculturale.
Immagine: Through the language glass, why the world looks different in other languages, amazon.it e amazon.co.uk
Ecco…quando vivevo in Francia, al di là della lingua, mi sentivo una vera straniera proprio per questo
e ancor oggi mi capita di faticare un po’
perchè non è solo un discorso di pronuncia e di grammatica,
ma di mimica e di formulario
la mia vera palestra in questo senso non è stata l’università,
bensì il parco con mamme e bambini,
mi stanno insegnando di tutto!
Grazie per questo post, molto molto interessante. Riesco tranquillamente a metterlo in relazione con la mia esperienza di vita di italiana in Svezia. Il linguaggio si porta certamente dietro la cultura, però è anche vero il contrario. A volte ci sono concetti intraducibili proprio perché manca un riferimento culturale (ad esempio il prendersi un the in inglese, che non è minimamente paragonabile al prendersi un the in un altro luogo al mondo)
Come del resto “oggi mangiamo il pasticcio” (= domenica, casa della nonna, cugini con cui giocare e “i grandi che parlano di cose di famiglia”, per fare un esempio tipico), non è affatto la stessa cosa che “I’ll take a pasticchio, thank you”.
Io proprio ieri sera ho iniziato a leggere il libro che ho messo a commento del post, veramente interessante, e anche ironico. Lo consiglio.
L.
Da sociolinguista (specializzandomi in bilinguismo) non posso che apprezzare questo post! Brava Jessica, continua così!
Grazie! è venuta fuori anche un’imprevista reinterpretazione delle ‘mamme del parco’ 🙂 Mi dicono amici stranieri che anche il nostro ‘andare a mangiare una pizza’ non ha eguali nel mondo! Grazie Letizia per il suggerimento!
Oggi piscina all’aperto a Hastings, Nuova Zelanda. Circondati da pacific islanders ci siamo sentiti come degli stranieri in patria!
A feste natalizie concluse da poco, a me viene in mente anche la nostra Befana. Ne parlavamo proprio al Playgroup. Come la spiegate una simpatica brutta vecchia a cavallo di una scopa che porta dolcetti e carbone? Fuori dai nostri confini non mi pare proprio che esista.
Un fraintendimento del linguaggio del corpo che mi è capitato di sperimentare è il tipico cenno di assenso indiano: loro scuotono la testa esattamente come noi quando vogliamo dire “no”, ma per loro è sì! Alla prima riunione di lavoro ne fui decisamente disorientata…
Il libro citato mi incuriosisce molto!
ah noi sulla Befana ormai sappiamo tutto, origini incluse, ce l’ha raccontato Eleonora nel suo penultimo post, vedi nella categoria Il mondo illustrato!
Il libro è fantastico, non riesco a metterlo giù, mi ci sto addormentando sopra tutte le sere…
Ciao,
L.
Però quand’ero in Russia non ricordo che Baba Jaga portasse regali, l’abete sì (e al Cremlino c’è sempre un albero meraviglioso che li distribuisce, o almeno c’era…)
Mi sa proprio che dovrò fare un nuovo ordine di libri… sul libro ti addormenti dalla stanchezza, vero?!? 🙂