Un’amica che lavora in un’università statunitense famosa per preparare la classe politica internazionale mi ha raccontato di aver scelto di iscrivere i suoi figli in una scuola bilingue italiano-inglese non tanto per il fattore linguistico, ma soprattutto perchè nella scuola bilingue gli insegnanti erano più preparati ad accogliere bambini con un‘identità culturale itinerante. Nella scuola monolingue, invece, i suoi figli avevano avuto difficoltà con i vari test che sondano le capacità dei bambini continuamente e a più livelli, a partire dall’asilo. Nel suo caso, in particolare, i bambini non avevano saputo rispondere alle domande sul coniglio pasquale: “Com’è possibile?- domandavano scandalizzate le maestre- alla loro età? Hanno sicuramente dei deficit cognitivi!”
La mamma aveva provato a spiegare che per i suoi bambini di madre italiana, papà cinese, nati in Francia e cresciuti in Brasile, il coniglio pasquale era ignoto come lo è Xi Shi per la maggior parte dei bambini occidentali. Niente da fare: per quelle maestre l’esito dei test era l’unica legge valida. Ai migranti è successo spesso di subire discriminazioni dovute alla lingua o alla cultura e solo di recente il multiculturalismo (inteso qui in senso generale) comincia ad essere interpretato come ricchezza e non come limite o, peggio ancora, come disturbo. Che cosa dicono gli studi più recenti, in particolare riguardo ai bambini che vivono molteplici esperienze culturali negli anni della crescita?
I bambini che vivono fuori dal paese di origine dei genitori, spesso passando da un paese all’altro, sono definiti in vario modo: ibridi culturali, nomadi globali, camaleonti culturali o individui di terza cultura (third culture individuals). Il fattore che caratterizza gli individi di terza cultura è il fatto di essere stati esposti ad una cultura diversa da quella di origine prima di essersi formati un’identità stabile e di crescere, quindi, plasmati in modo ibrido. La sfida più grande che questi bambini devono affrontare è quella di interrompere un processo di integrazione per ricominciarne da capo un altro, imparando nuovi modi di pensare, comunicare e agire, a diretto contatto con situazioni relazionali che richiedono una loro risposta immediata. Pollock e Van Reken hanno dato questa definizione dell’individuo di terza cultura: “una persona che ha speso gran parte degli anni della formazione fuori dal paese di origine dei genitori e che costruisce relazioni con tutte le culture, senza avere completa padronanza in nessuna. Sebbene elementi culturali diversi entrino nella sua esperienza, il suo senso di appartenenza si lega a persone che hanno un vissuto simile al suo”.
Al vissuto del nomade globale, in molte culture, sono associati valori negativi. In Giappone, il sistema scolastico si è preparato a riaccogliere i bambini emigrati fin dal 1966, ma, ancora nella stampa degli anni Settanta, si può leggere come questa esperienza venisse interpretata in modo per lo più negativo, con i bambini kikokushijo, ”rientrati” o kaigaishijo“emigrati,” percepiti e definiti “orfani culturali” bisognosi di un recupero prima di poter essere reintegrati nella cultura giapponese. Anche in altre culture, molti ricercatori (un esempio recente qui) hanno messo in evidenza gli aspetti negativi della mobilità per i bambini, privati di un senso di appartenenza. Confusi e senza radici, vittime di un vissuto di marginalità che non li colloca mai in nessuna terra, nemmeno se, un giorno, tornano in patria.
In realtà, è importante chiedersi che cosa si intende per cultura. Secondo Bachtin (qui): “non dobbiamo immaginare il regno della cultura come uno spazio con delle frontiere e un territorio al suo interno. Il regno della cultura è completamente distribuito lungo le frontiere. Le frontiere sono dappertutto, attraversano ogni suo aspetto. Ogni atto culturale vive essenzialmente sulle frontiere. Se viene separato da esse perde il suo fondamento, diventa vuoto e arrogante, degenera e muore.”
Quindi, i bambini cresciuti fuori dalla patria dei genitori, che tipo di esperienza culturale vivono? sono confusi o multiculturali? In accordo ad uno studio recente, gli individui di terza cultura somigliano alla persone cresciute dentro più culture. Come gli individui multiculturali, infatti, gli adulti di terza cultura riconoscono molteplici vantaggi alla propria esperienza: la capacità di adattarsi alle diverse situazioni, la consapevolezza culturale, la competenza plurilingue, l’apertura mentale. Alcune persone sviluppano identità culturali miste, con elementi presi dalle varie culture, altri multiple, perchè le culture non si fondono ma convivono una accanto all’altra. Tra gli svantaggi dell’identità itinerante, i partecipanti a questo studio riferiscono un sentimento di nostalgia per la famiglia lontana, il dolore legato alla necessità di separarsi dagli amici e da cose e esperienze divenute familiari. Sentono anche la mancanza di un senso di appartenenza, che è però forte verso la comunità degli altri nomadi globali con cui condividono l’esperienza di fluidità e flessibilità culturale e identitaria.
L’esperienza giapponese dei bambini rientrati in patria, i kikokushijo, ci aiuta a mettere a fuoco due aspetti importanti di sostegno al processo di formazione culturale ibrida: da un lato, è necessaria una società sempre più aperta e preparata ad formare e ad accogliere le nuove generazioni di cittadini globali, in entrata e in uscita da un paese; dall’altro, è utile che bambini e famiglie siano consapevoli delle difficoltà ma soprattutto dei vantaggi legati ai processi di integrazione che possono incontrare spostandosi in un altro paese. O semplicemente entrando in una classe scolastica multietnica e multiculturale, dove i bambini di oggi si raccontano le storie di Easter Bunny, bramini, Xi Shi e Aladino.
Per approfondimenti:
G. Mantovani (2005 2° ed.). L’elefante invisibile. Alla scoperta delle differenze culturali. Bologna, Il Mulino.
Bibliografia sugli immigrati italiani negli States
Sugli esami e l’integrazione scolastica, un racconto di W. Allen: potete trovarlo recensito qui
Fonti principali:
Yasuko Kanno (2000). Kikokushijo as bicultural. International Journal of Intercultural Relations, 24, 2000, 361-382.
Moore, A. M., & Barker, G.G. (2011). Confused or multicultural: Third culture individuals’ cultural identity. International Journal of Intercultural Relations (2011), doi:10.1016/j.ijintrel.2011.11.002
Tiziana says
sono molto daccordo con il tuo punto vista. grazie per questa ricerca. mi conferma a dare riconoscimento e sostegno a tutte quelle mamme che mi chiedono di poter parlare la lingua di origine al proprio bambino o bambina, anche se ancora non parla e deve essere inserito nel nido, italiano ovviamente. molte cose accadono perchè non c’è informazione, non c’è cultura.
Flavia says
Una cosa che molto mi incuriosisce è non aver letto, fino ad ora, testimonianza di mamme di bambini adottivi. Nessuna che legga BpG? Ho l’impressione che le problematiche, seppure molto diverse, siano in parte sovrapponibili, soprattutto per bambini che provegnono da paesi diversi e non arrivano piccolissimi (seppure, anche se non so citare la fonte, credo che già durante la gravidanza i bambini subiscano in parte l’influenza della lingua materna), sia per quanto riguarda il bilinguismo sia per la multiculturalità. E sarei anche curiosa di sapere cosa si consiglia in questi casi: l’abbandono della lingua di origine (non credo proprio, ma mi pare di aver letto che molti bambini l’abbandonano spontaneamente, e parlano la lingua nuova anche incontrandosi con bambini provenienti dalla stessa area geografica), l’incoraggiarne l’uso (difficile per dei genitori, quando si tratta di lingue poco conosciute, totalmente nuove e o di paesi molto lontani). Sarebbe intessante saperne di più. Conosci lavori al riguardo?
Grazie, comunque, del post molto interessante.
Jessica says
Ciao Flavia, sarebbe molto interessante conoscere le esperienze delle famiglie con bambini adottati, magari proviamo ad affrontare il discorso in un post. Intanto ti lascio qualche link con bibliografia.
Dal punto di vista linguistico, più si è piccoli più sembrano andare perdute le conoscenze linguistiche acquisite (http://www.unicog.org/biblio/Author/PALLIER-C.html). Per i più grandi, come per i bambini emigrati, sarebbe importante mantenere e potenziare la lingua madre, per quanto questo risulti a volte difficile nella pratica (http://bilinguepergioco.com/2012/02/15/bilinguismo-falsi-miti-e-conoscenze-scientifiche/).
Per il ruolo della lingua madre fin dal pancione ti segnalo questo (http://www.babytalk.it/wordpress/voce-di-linguamadre); qui trovi invece come si modificano le abilità percettive nel corso dei primi mesi di vita (http://www.babytalk.it/wordpress/linguaggio-e-sviluppo-cerebrale). Grazie per il suggerimento, ne riparleremo!
Marina says
Questo bell’articolo mi rende ancor piu fiera del mio piccolo 3lingue (presto quadri-) e multiculturale. Questi bambini sono la speranza contro ogni forma di razzismo, radicalismo. Sono semplicemente abitanti del mondo, terrestri e non greci, statunitensi, congolesi.
Hanno una consapevolezza linguistica e meta-linguistica sorprendente che se usate saggiamente potranno sono portare giovamento a questo mondo in crisi, che e’ una crisi molto piu’ di valori che altro.
Thank you, Merci, Grazie, ?????????, Dank u!
Jessica says
Bellissima testimonianza, grazie Marina!
Filippo says
Salve a tutt@! A riguardo sono molto preoccupato per una coppia di miei amici e vorrei condividere la loro storia: lui tedesco di origini vietnamite (madrelingua tedesco), lei vietnamita 100% (madrelingua vietnamita) e vivono a Barcellona dove le lingue ufficiali (anche al nido) sono due: lo spagnolo e il catalano. La bimba in casa ascolta i genitori che comunicano in inglese e (molto poco) vietnamita (il padre non lo parla un gran che), al nido ascolta il catalano dalle maestre e gli amici della coppia, me compreso, le parlano in spagnolo (la lingua con la quale comunichiamo quando siamo tutti insieme). Il problema è che la bimba, a due anni suonati, ancora non dice mezza parola. Dice “mammà”, ma perché si dice uguale in tutte le lingue, per il resto zero totale. Emette dei suoni ma non sono identificabili in nessuna delle lingue coinvolte.
La bimba corre il rischio concreto di avere problemi linguistici in futuro? Quale sarà la lingua che parlerà per prima?? I genitori sono molto giovani e non sembrano preoccuparsi troppo della cosa, ma a me la piccola da sempre l’impressione di essere spiazzata e non capirci nulla quando siamo tutti insieme. Sembra quasi che preferisca starsene in disparte piuttosto che provare a giocare con noi (e capire cosa diciamo). Mio nipote ha la stessa identica età e già “parla” un po’, o per lo meno da l’idea di capire qualcosa di quanto si sta dicendo.
Il multiculturalismo è indubbiamente un punto a favore..ritengo i miei amici bi-tri lingue molto fortunati. ma poveri bimbi!!
Bilingue Per Gioco says
Filippo,
in genere i bambini esposti anche a 3 o 4 lingue le imparano naturalmente, il plurilinguismo è una condizione naturale in gran parte del mondo, questo ovviamente non esclude che la bambina specifica abbia dei problemi, ma non è una valutazione che si possa fare così… bisognerebbe nel caso sentire un esperto, che immagino andrebbe prima di tutto a valutare se la bambina capisce quello che le viene detto.
L.
Jessica says
Ciao Filippo, a mio avviso è fortunata anche la bambina a poter vivere in un ambiente così ricco! Per il linguaggio, ci sono bambini e bambine che iniziano più tardi e se ne possono analizzare le cause indipendentemente dal plurilinguismo (un esempio: http://www.pianetamamma.it/il-bambino/sviluppo-e-crescita/se-le-prime-parole-si-fanno-aspettare.html). Se la situazione desta preoccupazione, ad esempio se la bambina non capisce, come suggerisce Letizia, o se non si notano progressi, i suoi genitori potrebbero chiedere un parere per escludere la presenza di reali ostacoli all’apprendimento (ad es. problemi di udito) e per capire se sono opportuni degli aggiustamenti negli stimoli ambientali. In tutti questi casi, prima si interviene meglio è, anche solo per stare più tranquilli!